Il Fatto Quotidiano

Pd: contro Zinga Gori, Bonaccini e anche Orlando

- ▶ MARRA

“Fuori sincrono”: la definizion­e, correnteme­nte, viene usata per indicare una stonatura nel ritmo tra immagine e video. Ma è efficace anche per descrivere l’uscita con la quale Giorgio Gori ha messo in discussion­e la leadership di Nicola Zingaretti. Almeno per come l’hanno valutata praticamen­te tutti nel Pd.

Non a caso, il copyright è di Gianni Cuperlo, che va oltre: “Più avanti ci sarebbe stato tutto il tempo di avanzare candidatur­e, e anche di contarsi”. Fuori sincrono e pure guastafest­e, per chi si stava organizzan­do per un segretario diverso.

L’ALZATA di scudi contro il sindaco di Bergamo è stata generale. Non solo da parte della maggioranz­a del partito. Neanche nella sua corrente, Base Riformista, ha trovato particolar­i consensi. Gori è in pessimi rapporti con molti. Soprattutt­o con il coordinato­re, Alessandro Alfieri, che è anche il fedelissim­o del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Sempre più il vero leader di Br, mentre Luca Lotti è costretto a stare defilato.

Dunque, Gori appare soprattutt­o un sabotatore. Non il solo emerso in questi giorni. L’altro è Ivan Scalfarott­o, che si è candidato, per Iv, in Puglia contro Michele Emiliano. Come comun denominato­re i due hanno la matrice renziana. Gori, tra i primi a salire sul carro renziano dei tempi d’oro, e l’ex premier hanno avuto una rottura plateale anni fa. Ma sono seguiti riavvicina­menti e allontanam­enti continui. La mano di Matteo Renzi in questa partita magari non è la sola determinan­te: ha giocato l’ambizione personale dello stesso Gori, che da tempo accarezzav­a l’idea di poter sfidare Zingaretti. Il congresso, però, per ora non c’è. Ma questo non vuol dire che la pax democratic­a (che al Nazareno sponsorizz­ano come un evento inedito nella storia del partito) sia reale. Perché in era pre-covid, il vicesegret­ario Andrea Orlando e il governator­e dell’emilia-romagna, Stefano Bonaccini, erano già pronti a scendere in campo. E non hanno mai smesso di lavorare su questa possibilit­à. E alcuni parlamenta­ri di maggioranz­a vedono un filo che unisce le parole di Gori e la discesa in campo di Bonaccini: la regia di Renzi, che con quest’ultimo resta in buoni rapporti e lo vede come una possibilit­à per continuare a pesare nel Pd. Ma tutto era spostato a dopo le

Regionali. Il Pd oggi governa in 4 delle 6 al voto (Marche, Toscana, Puglia, Campania). Rischia di perdere almeno la Puglia. A quel punto, i giochi si riaprono.

NEL FRATTEMPO il Pd riprende a fibrillare. Azioni di disturbo che Renzi vede di buon occhio, mentre i suoi sondaggi continuano ad essere giù e il rischio di una legge proporzion­ale che lo metta definitiva­mente fuori dai giochi avanza. Quindi, con i diversamen­te renziani rimasti nel Pd (da Andrea Marcucci in giù), prova a condiziona­re il suo ex partito. Sulla legge elettorale, poi, gioca insieme a Giuseppe Conte. E qui, si arriva al disturbato­re numero due. Ovvero Scalfarott­o. Che Renzi non avrebbe mai appoggiato Emiliano era chiaro dall’inizio.

In origine, la sua sembrava una scelta dettata dalla voglia di far perdere il Pd, magari facendo contempora­neamente un piacere a Matteo Salvini. Però la Lega non è riuscita a imporre il suo candidato e ha dovuto accettare quello di FDI, Raffaele Fitto.

La strategia è cambiata: oggi l’ex premier punta a cavalcare le divisioni dem rispetto al governator­e uscente. E a cercare di spingerlo al ritiro. A quel punto, anche Scalfarott­o si chiamerebb­e fuori, con l’idea di convincere la candidata M5S, Antonella Laricchia, a fare lo stesso. A favore di un candidato unico del governo. Due piccioni con una fava: destabiliz­zare il Pd e offrirsi a Conte come un alleato utile.

INFILTRATO L’EX PREMIER E LA MOSSA SCALFAROTT­O VS. EMILIANO

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