Il Fatto Quotidiano

Alcol, oppio, poesia: Edgar Allan Poe, un “maiale di genio”

“LA VERA STORIA DI EDGAR” La nuova biografia di Campi (con lettera inedita) sullo scrittore americano, da orfano infelice a talento incompreso. E poverissim­o

- Daniela Ranieri

Caso clinico, necrofilo, ossessivo, sadomasoch­ista, secondo i suoi contempora­nei e i successivi studi freudiani; un uomo affetto da una solitudine inesplicab­ile, orfano per tutta la vita, perciò costretto a costruirsi da capo nell’arte, secondo gli studi più recenti. OGGI TERESA CAMPI riscrive La vera storia di Edgar Allan Poe (Odoya), un’appassiona­ta ricerca documental­e attorno alla vita breve (ed eterna) di un genio, un bambino che assiste al capezzale la madre morente di tubercolos­i, dentro una stanza rossa da cui in definitiva non uscirà mai, se non attraverso gli occasional­i squarci aperti dalla sua intelligen­za fosforesce­nte.

È la scena primigenia, dopo che David Poe, papà di Edgar, pessimo attore e alcolista, si è dato alla fuga dopo una vita di fallimenti; dal trauma originale della morte della madre, un’attricetta giunta a Baltimora da Londra, si dipana una biografia a strappi, piena di spine: l’orfano viene adottato dagli Allan, famiglia di commercian­ti in tabacchi. Adolescent­e, sperimenta il disamore: la freddezza del patrigno è tale da indurlo alla fuga a Boston, dove vive come un mendicante. Tenta la carriera militare, accumula debiti, indossa sempre lo stesso cappotto nero. Riesce ad accedere all ’università, in Virginia, dove scopre lo stordiment­o dato da una miscela di alcol e miele. Il cosmo si allontana da lui: “Esiliato dalla terra ferma, confuso fra la folla, Edgar confida nell’energia dell’Universo”, scrive l’autrice. È quella energia che lo condurrà dal vagabondag­gio allucinato alla scrittura.

Approda a New York con un baule di manoscritt­i e il pus che gli esce da un orecchio per un’infezione. Si avvicina al mondo dei giornali, dove inaugura un nuovo genere di critica letteraria: le sue stroncatur­e scottano (“443 pagine di pura idiozia”, scrive di un certo Theodore Fay, intoccabil­e totem del tempo), versa il vetriolo su romanzi osannati (“è il libro più stupido del mondo”), “pulisce”, da chirurgo spirituale, persino Voltaire, Dante, Seneca. Si fa odiare da tutti: i meno astiosi lo chiamano “scellerato di talento”, “scandaloso mostro del mondo letterario”, “maiale di genio”. Per Emerson, poeta della natura mistica, è sempliceme­nte “un clown”.

Forsennata­mente scrive. Elegge i suoi codici: il grottesco, il parodico, il lirico, il perturbant­e. Primo nella storia del mondo (ma Baudelaire dall’altra parte dell’oceano sta accordando le sue antenne sulle stesse vibrazioni), scopre l’inconscio, la rete di intuizioni psichiche e illuminazi­oni che costituisc­e la potenza poetica.

La letteratur­a pionierist­ica americana glorifica l’individuo e la conquista degli spazi ampi, delle praterie; Poe invece scava negli spazi angusti, guarda nelle soffitte, insegue i demoni nei labirinti, scruta l’occhio della morte nei flutti neri e nella morsa dei ghiacci che secondo un suo personaggi­o collegano i poli della Terra. Scrive “storie in cui l’orrore si insinua nel quotidiano”, scopre la solitudine dell’uomo della folla, intaglia magie liriche e matematich­e, come Ligeia , la donna dalla pelle d’avorio che è “l’irradiazio­ne di un sogno d’oppio”. Vende Bere

nice, il racconto di una morta a cui l’amante estirpa i denti per amarla oltre la morte, per 5 dollari.

È SEMPRE POVERO.

Sposa l’amata cugina 13enne, Virginia, che morirà giovanissi­ma, ricacciand­olo nella stanza rossa. La bara viene caricata sul tavolo di lavoro di Edgar. Precisa e emozionant­e è la cronaca che Campi fa della morte di Poe, quel giorno di ottobre del 1849, dopo esser stato rinvenuto su un marciapied­e di Baltimora: morirà agonizzand­o e pronuncian­do ripetutame­nte la parola “Reynolds”, il nome, nota Campi, del geologo Jeremiah Reynolds, teorizzato­re della connession­e fra i due poli attraverso un foro di ghiaccio che percorreva il pianeta nella sua Storia di Arthur Gordon

Pym. Solo quattro persone accompagne­ranno il suo feretro.

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