Alcol, oppio, poesia: Edgar Allan Poe, un “maiale di genio”
“LA VERA STORIA DI EDGAR” La nuova biografia di Campi (con lettera inedita) sullo scrittore americano, da orfano infelice a talento incompreso. E poverissimo
Caso clinico, necrofilo, ossessivo, sadomasochista, secondo i suoi contemporanei e i successivi studi freudiani; un uomo affetto da una solitudine inesplicabile, orfano per tutta la vita, perciò costretto a costruirsi da capo nell’arte, secondo gli studi più recenti. OGGI TERESA CAMPI riscrive La vera storia di Edgar Allan Poe (Odoya), un’appassionata ricerca documentale attorno alla vita breve (ed eterna) di un genio, un bambino che assiste al capezzale la madre morente di tubercolosi, dentro una stanza rossa da cui in definitiva non uscirà mai, se non attraverso gli occasionali squarci aperti dalla sua intelligenza fosforescente.
È la scena primigenia, dopo che David Poe, papà di Edgar, pessimo attore e alcolista, si è dato alla fuga dopo una vita di fallimenti; dal trauma originale della morte della madre, un’attricetta giunta a Baltimora da Londra, si dipana una biografia a strappi, piena di spine: l’orfano viene adottato dagli Allan, famiglia di commercianti in tabacchi. Adolescente, sperimenta il disamore: la freddezza del patrigno è tale da indurlo alla fuga a Boston, dove vive come un mendicante. Tenta la carriera militare, accumula debiti, indossa sempre lo stesso cappotto nero. Riesce ad accedere all ’università, in Virginia, dove scopre lo stordimento dato da una miscela di alcol e miele. Il cosmo si allontana da lui: “Esiliato dalla terra ferma, confuso fra la folla, Edgar confida nell’energia dell’Universo”, scrive l’autrice. È quella energia che lo condurrà dal vagabondaggio allucinato alla scrittura.
Approda a New York con un baule di manoscritti e il pus che gli esce da un orecchio per un’infezione. Si avvicina al mondo dei giornali, dove inaugura un nuovo genere di critica letteraria: le sue stroncature scottano (“443 pagine di pura idiozia”, scrive di un certo Theodore Fay, intoccabile totem del tempo), versa il vetriolo su romanzi osannati (“è il libro più stupido del mondo”), “pulisce”, da chirurgo spirituale, persino Voltaire, Dante, Seneca. Si fa odiare da tutti: i meno astiosi lo chiamano “scellerato di talento”, “scandaloso mostro del mondo letterario”, “maiale di genio”. Per Emerson, poeta della natura mistica, è semplicemente “un clown”.
Forsennatamente scrive. Elegge i suoi codici: il grottesco, il parodico, il lirico, il perturbante. Primo nella storia del mondo (ma Baudelaire dall’altra parte dell’oceano sta accordando le sue antenne sulle stesse vibrazioni), scopre l’inconscio, la rete di intuizioni psichiche e illuminazioni che costituisce la potenza poetica.
La letteratura pionieristica americana glorifica l’individuo e la conquista degli spazi ampi, delle praterie; Poe invece scava negli spazi angusti, guarda nelle soffitte, insegue i demoni nei labirinti, scruta l’occhio della morte nei flutti neri e nella morsa dei ghiacci che secondo un suo personaggio collegano i poli della Terra. Scrive “storie in cui l’orrore si insinua nel quotidiano”, scopre la solitudine dell’uomo della folla, intaglia magie liriche e matematiche, come Ligeia , la donna dalla pelle d’avorio che è “l’irradiazione di un sogno d’oppio”. Vende Bere
nice, il racconto di una morta a cui l’amante estirpa i denti per amarla oltre la morte, per 5 dollari.
È SEMPRE POVERO.
Sposa l’amata cugina 13enne, Virginia, che morirà giovanissima, ricacciandolo nella stanza rossa. La bara viene caricata sul tavolo di lavoro di Edgar. Precisa e emozionante è la cronaca che Campi fa della morte di Poe, quel giorno di ottobre del 1849, dopo esser stato rinvenuto su un marciapiede di Baltimora: morirà agonizzando e pronunciando ripetutamente la parola “Reynolds”, il nome, nota Campi, del geologo Jeremiah Reynolds, teorizzatore della connessione fra i due poli attraverso un foro di ghiaccio che percorreva il pianeta nella sua Storia di Arthur Gordon
Pym. Solo quattro persone accompagneranno il suo feretro.