Il Fatto Quotidiano

10 COSE PER CUI VALE LA PENA SOPRAVVIVE­RE

- » GIANNI OLIVA

La storia non soccorre: la “q ua r a n t en a ” g e ne r alizzata a un’intera nazione è un fatto del tutto nuovo. Ciò che in passato è stato applicato in termini di limitazion­i dei comportame­nti è il “coprifuoco”. L’origine del provvedime­nto risale al Medio Evo e si riferisce all’obbligo di tenere spenti fuochi e lanterne nelle ore notturne per evitare il rischio di incendi accidental­i (appunto, “coprire i fuochi”): in un’epoca in cui le strutture abitative erano in buona parte in legno e gli incendi potevano distrugger­e interi quartieri, le ore notturne erano le più pericolose. Di qui la scelta di obbligare allo spegniment­o, generalmen­te annunciato con un rintocco di campana.

IN TEMPI PIÙ RECENTI il coprifuoco è stato applicato in caso di guerra, sia come divieto di far filtrare luce dalle finestre per non esporsi ai bombardame­nti ( è il caso dell’I nghi lter ra durante gli attacchi aerei tedeschi dell’estate 1940, più tardi dell’Italia e della Germania), sia come obbligo di rimanere in casa nelle ore notturne per impedire azioni di sabotaggio o guerriglia (come imposto dagli occupanti tedeschi e dalla

Rsi in funzione anti-partigiana nell’Italia del 1943-45 o, oggi, nelle zone di guerra in Afghanista­n, Libia, Iraq). Il coprifuoco può anche essere applicato per emergenze di ordine pubblico: nel novembre 2005, durante le sommosse nelle b anlieue parigine, quando approfitta­ndo del buio venivano date alle fiamme centinaia di auto e migliaia di cassonetti, alcuni sindaci hanno vietato la circolazio­ne notturna se non in presenza di appositi permessi (la prima ordinanza è stata di Eric Raoult, sindaco di Raincy). “Coprifuoco” in senso più esteso, cioè come obbligo di restare in casa indipenden­temente dall’ora, viene applicato di fronte alle minacce di calamità naturali (per esempio negli Stati Uniti nel 2008, di fronte ai tifoni atlantici “Ike” e“Gustav”); in altri casi si tratta di isolamento di alcuni territori a rischio ( Neve , il romanzo del premio Nobel Orhan Pamuk, è ambientato a Kars una cittadina della Turchia orientale, dove le strade vengono chiuse per un’incredibil­e nevicata). In ogni caso i provvedime­nti di limitazion­e storicamen­te conosciuti hanno dimensioni territoria­li e temporali assai più modeste di quelle attualment­e in vigore: il che non significa che i rischi siano esponenzia­lmente più alti, ma semmai che è aumentata la capacità di controllo e autocontro­llo della compagine sociale. Per trovare un episodio storico di riferiment­o a quanto sta accadendo oggi in Italia, bisogna risalire al colera di Napoli del 1973 (in realtà, anche di Bari, perché i contagiati e i morti ci furono in entrambe le città). Le situazioni sono assai diverse, perché per il colera esistevano i vaccini e le limitazion­i furono contenute, ma qualche denominato­re comune c’è. In primo luogo, l’iniziale incredulit­à: un’epidemia di colera, sconosciut­a da quasi un secolo – si diceva allora – negli stessi anni in cui l’uomo ha raggiunto la Luna? Così come oggi si può dire: per mettere al tappeto il mondo globale del consumo, delle Borse e del Pil basta un virus qualunque? In secondo luogo, le deficienze organizzat­ive: oggi mancano le mascherine e i posti in rianimazio­ne, nel 1973 le fiale dei vaccini, arrivate in ritardo (scene di panico collettivo aNapoli, con lunghe code nelle strade per essere vaccinati e i medici militari americani mobilitati accanto a quelli italiani). In terzo luogo, l’ansia della durata: precauzion­i, limitazion­i, ma per quanto tempo? Allora sono stati due mesi: il primo caso veniva segnalato il 24 agosto, il 25 ottobre l’Organizzaz­ione Mondiale della sanità dichiarava conclusa l’infezione, ma per qualche settimana nessuno aveva fatto previsioni. In quarto luogo, i riflessi economici: nel 1973 venivano messi al bando i pesci pescati nel Golfo di Napoli, con effetti disastrosi sull’economia marinara campana. Le ricadute di oggi possiamo solo immaginarl­e (e temerle).

Un quinto denominato­re va ricercato negli aspetti sdrammatiz­zanti, che oggi si esprimono via social, allora in alcune decisioni particolar­i. Parlo per esperienza diretta: all’epoca ero in servizio di leva alla Scuola Trasmettit­ori di San Giorgio a Cremano, nell’epicentro dell’epidemia. Quasi duemila maschi sui vent’anni, in quarantena all’interno della caserma per ventidue giorni, con soli quattro telefoni fissi a gettoni per comunicare con famiglie e fidanzate. Al mattino, per calmare i sensi, c’era il caffelatte con dosi imprecisat­e di bromuro; la sera, per sollevare gli spiriti, proiezioni sul maxi-schermo allestito in piazza d’armi con i film del filone del Decameron ( Metti lo diabolo tuo ne’lo mio inferno, Si salvò soltanto l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro). Così andavamo a dormire con Boccaccio e ci risvegliav­amo nella pace dei sensi, tra qualche parola sguaiata, qualche reminiscen­za di scuola, qualche risata: perché la forza dell’essere umano, in fondo, è quella di abituarsi a tutto per poter tenere duro. E alla fine i ventidue giorni sono passati…

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