COSA CI INSEGNA (DI BUONO) QUESTO VIRUS PER IL FUTURO
“Ex malo bonum”, dice Sant’Agostino: e anche dal pessimo coronavirus abbiamo il modo di ricavare qualcosa di buono. La prima condizione perché ciò accada è psicologica, ed è smettere di desiderare un velocissimo, automatico “ritorno alla normalità”. Perché quel che l’epidemia ci svela, è che la nostra normalità non è affatto normale.
Prendiamo il vero spettro che in queste ore si aggira per la Lombardia, anzi per l’Italia, anzi per tutto l’Occidente: il collasso dei sistemi sanitari sotto il peso di troppe emergenze simultanee. Ebbene, quando il panico sarà passato – speriamo senza conseguenze troppo drammatiche – dovremo evitare di far finta di nulla. Dalla metà degli anni Novanta a oggi, i posti-letto pubblici della Lombardia sono stati dimezzati, mentre quelli privati aumentavano in proporzione. Le strutture di ricovero pubbliche e private ormai si equivalgono per numero: e a Milano, Como e Bergamo prevalgono anzi quelle private. È il modello Formigoni: privatizzazione selvaggia, arricchimento privato sulla pelle della salute pubblica. Un modello che ha decisivamente attecchito anche in regioni come Toscana ed Emilia, dove ogni anno il pubblico perde terreno e il privato lo guadagna. L’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale ha confermato che si tratta di un trend nazionale: “In un momento di gravissima difficoltà della sanità pubblica – ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – pesantemente segnata dalla carenza e dalla demotivazione del personale, non è accettabile che le agevolazioni fiscali destinate a fondi integrativi e welfare aziendale favoriscano la privatizzazione del Ssn. I dati documentano infatti che siamo di fronte alla progressiva espansione di un servizio sanitario ‘parallelo’che sottrae denaro pubblico per alimentare anche profitti privati, senza alcuna connotazione di reale integrazione rispetto a quanto già offerto dai livelli essenziali di assistenza”.
È questa la normalità a cui vorremmo subito tornare? Sarebbe una pessima idea, perché sappiamo con certezza che tra pochi anni l’Italia avrà stabile bisogno di un numero di posti letto molto più alto, e di una struttura sanitaria decisamente più efficiente di quella di oggi: nel 2045 l’età media si sarà alzata di cinque anni e gli over 65 saranno oltre il 34 % della popolazione. In altre parole, il virus a cui certamente non scapperemo si chiama vecchiaia: e dovremmo attrezzarci ad affrontarlo ricostruendo la sanità pubblica, in termini di strutture e personale (oggi in Italia abbiamo, per esempio, 5,5 infermieri per 1000 abitanti, quando la media Ocse è di 8,9…).
MA LA LEZIONE del virus non riguarda solo la sanità. Bisognerebbe avere la forza di riflettere sulle impressionanti immagini dei cieli della Cina a febbraio, elaborate dal satellite dell’Esa Sentinel 5, preposto al controllo della qualità dell’aria: il biossido di azoto è diminuito dal 10 al 30%, e non solo a Wuhan ma su tutto il Paese. Per ritrovare un simile dis- inquinamento bisogna risalire alla recessione economica del 2008.
E la domanda è: non potremmo prendere questo forzato e temporaneo cambio di paradigma come la prova concreta che cambiare è possibile?
Abbiamo paura del contagio, a ragione: ma il cambio climatico e il prossimo collasso del pianeta dovrebbero farci molta più paura. E non è necessario andare in Cina per capire che si tratta di un’emergenza attuale, e non futura: restando alla zona gialla del virus, il bacino del Po e i bacini idrici del Nord Italia sono, ai primi di marzo, già asciutti come d’estate, con conseguenze immaginabili sull’agricoltura.
E dunque: la decrescita obbligata da virus dovrebbe darci la forza di capire che è tempo di consumare di meno, di far viaggiare di meno le merci, di lavorare per un numero minore di ore e così via. Di rinunciare, insomma, a questo devastante modello di crescita infinita.
C’è poi un risvolto tutto italiano di questa lezione: quello che riguarda la decisa frenata della turistificazione di città come Venezia o Firenze, che hanno improvvisamente perso circa la metà delle prenotazioni, e che in questi giorni appaiono belle e accoglienti come non lo erano da trent’anni almeno. Una tragedia economica, un paradiso civile e sociale: possibile che questa clamorosa contraddizione non ci dica qualcosa sulla follia di un modello che distrugge inesorabilmente la “bellezza” che vende? Anche in questo caso, tornare a quella distruttiva “normalità” sarebbe suicida: molto meglio capire che così non possiamo comunque andare avanti.
Ognuno di noi lo ha sperimentato, in un modo o in un altro: per cambiare vita abbiamo spesso bisogno di un trauma. Ebbene, per cambiare vita tutti insieme sarebbe saggio farci bastare questo trauma: il prossimo potrebbe non lasciarcene il tempo.