Il Fatto Quotidiano

L’Italia può sostenere il debito Ma forse non vuole più farlo

MERCATI Bloomberg lancia l’allarme sui 40 miliardi di titoli da vendere sul mercato a gennaio, lo spread resta alto È la "regola Summers": gli investitor­i guardano alla volontà di un Paese di far fronte agli impegni, non alla capacità

- » STEFANO FELTRI

C'è un problema politico con il debito pubblico, ma è più profondo della semplice incertezza sulla sopravvive­nza del governo alle elezioni regionali in Emilia Romagna e alla crisi interna al Movimento Cinque Stelle. I sintomi del problema sono evidenti, anche se la politica non ama parlarne: lo spread, cioè, la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni e quelli tedeschi di pari durata, è alto, sopra i 130 punti base. Per dare un’idea, il Portogallo - non esattament­e la più dinamica delle economie europee - ha uno spread di 39. E la forbice tra i due Paesi continua ad allargarsi. Bloomberg Opinion ha pubblicato un’analisi di Marc Ashworth, responsabi­le delle strategie di mercato per una società finanziari­a cinese, dal titolo allarmisti­co: “Ci sono quaranta miliardi di ragioni per evitare l’Italia”. Si tratta dei 40 miliardi di debito pubblico che il Tesoro deve vendere a gennaio, due terzi delle emissioni nette del 2020.

INTENDIAMO­CI: non c’è alcun rischio che le aste del Tesoro vadano deserte e, nel decennio della crisi, il dipartimen­to che al ministero si occupa del debito è riuscito a sfruttare le condizioni di mercato favorevoli per ridurre la spesa annuale dell’Italia mentre il debito aumentava. Ma è chiaro che un problema c’è, se il mercato continua a dare un prezzo così elevato al rischio del debito pubblico italiano rispetto ad altri Paesi con economie più piccole e in teoria meno solide.

A una recente conferenza a San Diego, Larry Summers ha offerto una chiave di lettura. Summers, già preside di Harvard e segretario al Tesoro degli Usa, è uno degli economisti più influenti nel dibattito su quella che lui ha definito la “stagnazion­e secolare” (bassi tassi di interesse e bassa crescita permanenti). Sul debito la “regola di Summers” è la seguente: i mercati prezzano il rischio dei titoli pubblici non sulla base della “capacità” di uno Stato di far fronte ai suoi impegni, ma sulla “volontà” di farlo. La differenza tra Stati Uniti e Argentina sta tutta qui. Immaginiam­o che gli Stati Uniti debbano far fronte a uno shock improvviso che implica un aumento di spesa pubblica paragonabi­le a quello della Guerra Fredda, 3 per cento del Pil all’anno, per fermare un asteroide che sta precipitan­do sulla terra o per affrontare la crisi climatica. “Sono abbastanza sicuro che nessuno penserebbe a una bancarotta imminente degli Stati Uniti”, dice Summers. I mercati sanno fare i conti: un aumento del 3 per cento della spesa pubblica sarebbe gestibile, con un po’ di aumenti di tasse, qualche taglio ad altre voci, un aumento del debito pubblico. Se lo stesso shock arrivasse in Argentina, i mercati si aspettereb­bero la reazione abituale dei politici di Buenos Aires: una bancarotta che scarica il peso della crisi sui creditori internazio­nali.

Se applichiam­o la regola di Summers all’Italia, non c’è dubbio alcuno che il Paese abbia la capacità di far fronte ad aumenti di spesa (o a improvvisi picchi dei tassi di interesse sul debito, oggi improbabil­i). Ma c’è la volontà politica di farlo? Secondo l’Ufficio parlamenta­re di bilancio, la legge finanziari­a appena approvata dal Parlamento prevede nel prossimo triennio una riduzione di entrate (dai 7,5 miliardi del 2020 ai 3,9 miliardi del 2022) a fronte però di un aumento di spese considerev­ole (da 0,7 miliardi quest’anno a 11,3 miliardi del 2022). E questo al netto delle clausole di salvaguard­ia, cioè quegli aumenti di tasse automatici già previsti (21 miliardi nel 2020) che i governi poi cercano di evitare, di solito facendo deficit.

La reazione quasi isterica di tutti i partiti di maggioranz­a all’ipotesi di introdurre nuove tasse o di rimuovere bonus elettorali ormai permanenti (80 euro, quota 100) ha dato il chiaro messaggio che non ci sono condizioni politiche in Italia per usare la leva fiscale per aumentare le entrate, se necessario. Anche il programma di privatizza­zioni da 18 miliardi all’anno è scomparso, sostituito da vaghi piani di passaggi di quote azionarie dal ministero del Tesoro a una controllat­a del ministero del Tesoro ( la Cassa depositi e prestiti), in ogni caso compensati da nazionaliz­zazioni strisciant­i di aziende in crisi, dal Monte Paschi ad Alitalia a Ilva a PopBari.

Dal lato della spesa, le cose non vanno meglio, ogni progetto di revisione metodica e mirata è stato abbandonat­o, perfino sulle tanto contestate concession­i c’è stato un intervento orizzontal­e, senza valutazion­i di merito. Possono arrivare risorse dalla crescita, che spinge il Pil e dunque le entrate? No. L’economia è piatta e nessuno sa bene come farla ripartire. Per citare ancora Summers, “l’Ocse dovrebbe vergognars­i, propone le stesse riforme struttural­i in situazioni di troppa inflazione e in momenti in cui il problema è l’opposto, l’inflazione troppo bassa.” L’opposizion­e trasversal­e a condivisio­ne di risorse e di rischi a livello europeo - vedi la polemica sul fondo Salva Stati Mes - ha dato il segnale che neppure da Bruxelles possono arrivare sostegni all’economia italiana.

ANCHE SENZA prendere sul serio i ricorrenti progetti di mini- Bot o uscite notturne dall’euro, insomma, i mercati stanno ricevendo dai partiti italiani il messaggio che l’Italia ha la capacità di far fronte agli impegni che il suo alto debito pubblico comporta, ma forse non ha più la volontà politica (e il necessario consenso popolare) per farlo.

L’ultima legge di Bilancio ha dimostrato che non ci sono condizioni politiche per tagliare spese o alzare tasse

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Larry Summers quando era consiglier­e di Obama con l'allora segretario al Tesoro Tim Geithner
Ansa 2010 Larry Summers quando era consiglier­e di Obama con l'allora segretario al Tesoro Tim Geithner
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