L’Italia può sostenere il debito Ma forse non vuole più farlo
MERCATI Bloomberg lancia l’allarme sui 40 miliardi di titoli da vendere sul mercato a gennaio, lo spread resta alto È la "regola Summers": gli investitori guardano alla volontà di un Paese di far fronte agli impegni, non alla capacità
C'è un problema politico con il debito pubblico, ma è più profondo della semplice incertezza sulla sopravvivenza del governo alle elezioni regionali in Emilia Romagna e alla crisi interna al Movimento Cinque Stelle. I sintomi del problema sono evidenti, anche se la politica non ama parlarne: lo spread, cioè, la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni e quelli tedeschi di pari durata, è alto, sopra i 130 punti base. Per dare un’idea, il Portogallo - non esattamente la più dinamica delle economie europee - ha uno spread di 39. E la forbice tra i due Paesi continua ad allargarsi. Bloomberg Opinion ha pubblicato un’analisi di Marc Ashworth, responsabile delle strategie di mercato per una società finanziaria cinese, dal titolo allarmistico: “Ci sono quaranta miliardi di ragioni per evitare l’Italia”. Si tratta dei 40 miliardi di debito pubblico che il Tesoro deve vendere a gennaio, due terzi delle emissioni nette del 2020.
INTENDIAMOCI: non c’è alcun rischio che le aste del Tesoro vadano deserte e, nel decennio della crisi, il dipartimento che al ministero si occupa del debito è riuscito a sfruttare le condizioni di mercato favorevoli per ridurre la spesa annuale dell’Italia mentre il debito aumentava. Ma è chiaro che un problema c’è, se il mercato continua a dare un prezzo così elevato al rischio del debito pubblico italiano rispetto ad altri Paesi con economie più piccole e in teoria meno solide.
A una recente conferenza a San Diego, Larry Summers ha offerto una chiave di lettura. Summers, già preside di Harvard e segretario al Tesoro degli Usa, è uno degli economisti più influenti nel dibattito su quella che lui ha definito la “stagnazione secolare” (bassi tassi di interesse e bassa crescita permanenti). Sul debito la “regola di Summers” è la seguente: i mercati prezzano il rischio dei titoli pubblici non sulla base della “capacità” di uno Stato di far fronte ai suoi impegni, ma sulla “volontà” di farlo. La differenza tra Stati Uniti e Argentina sta tutta qui. Immaginiamo che gli Stati Uniti debbano far fronte a uno shock improvviso che implica un aumento di spesa pubblica paragonabile a quello della Guerra Fredda, 3 per cento del Pil all’anno, per fermare un asteroide che sta precipitando sulla terra o per affrontare la crisi climatica. “Sono abbastanza sicuro che nessuno penserebbe a una bancarotta imminente degli Stati Uniti”, dice Summers. I mercati sanno fare i conti: un aumento del 3 per cento della spesa pubblica sarebbe gestibile, con un po’ di aumenti di tasse, qualche taglio ad altre voci, un aumento del debito pubblico. Se lo stesso shock arrivasse in Argentina, i mercati si aspetterebbero la reazione abituale dei politici di Buenos Aires: una bancarotta che scarica il peso della crisi sui creditori internazionali.
Se applichiamo la regola di Summers all’Italia, non c’è dubbio alcuno che il Paese abbia la capacità di far fronte ad aumenti di spesa (o a improvvisi picchi dei tassi di interesse sul debito, oggi improbabili). Ma c’è la volontà politica di farlo? Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, la legge finanziaria appena approvata dal Parlamento prevede nel prossimo triennio una riduzione di entrate (dai 7,5 miliardi del 2020 ai 3,9 miliardi del 2022) a fronte però di un aumento di spese considerevole (da 0,7 miliardi quest’anno a 11,3 miliardi del 2022). E questo al netto delle clausole di salvaguardia, cioè quegli aumenti di tasse automatici già previsti (21 miliardi nel 2020) che i governi poi cercano di evitare, di solito facendo deficit.
La reazione quasi isterica di tutti i partiti di maggioranza all’ipotesi di introdurre nuove tasse o di rimuovere bonus elettorali ormai permanenti (80 euro, quota 100) ha dato il chiaro messaggio che non ci sono condizioni politiche in Italia per usare la leva fiscale per aumentare le entrate, se necessario. Anche il programma di privatizzazioni da 18 miliardi all’anno è scomparso, sostituito da vaghi piani di passaggi di quote azionarie dal ministero del Tesoro a una controllata del ministero del Tesoro ( la Cassa depositi e prestiti), in ogni caso compensati da nazionalizzazioni striscianti di aziende in crisi, dal Monte Paschi ad Alitalia a Ilva a PopBari.
Dal lato della spesa, le cose non vanno meglio, ogni progetto di revisione metodica e mirata è stato abbandonato, perfino sulle tanto contestate concessioni c’è stato un intervento orizzontale, senza valutazioni di merito. Possono arrivare risorse dalla crescita, che spinge il Pil e dunque le entrate? No. L’economia è piatta e nessuno sa bene come farla ripartire. Per citare ancora Summers, “l’Ocse dovrebbe vergognarsi, propone le stesse riforme strutturali in situazioni di troppa inflazione e in momenti in cui il problema è l’opposto, l’inflazione troppo bassa.” L’opposizione trasversale a condivisione di risorse e di rischi a livello europeo - vedi la polemica sul fondo Salva Stati Mes - ha dato il segnale che neppure da Bruxelles possono arrivare sostegni all’economia italiana.
ANCHE SENZA prendere sul serio i ricorrenti progetti di mini- Bot o uscite notturne dall’euro, insomma, i mercati stanno ricevendo dai partiti italiani il messaggio che l’Italia ha la capacità di far fronte agli impegni che il suo alto debito pubblico comporta, ma forse non ha più la volontà politica (e il necessario consenso popolare) per farlo.
L’ultima legge di Bilancio ha dimostrato che non ci sono condizioni politiche per tagliare spese o alzare tasse