Autostrade: si può rimuovere per legge la concessione
Il 14 agosto 2018 non è crollato solo il ponte Morandi di Genova, portando con sé le vite di 43 persone, ma con esso anche la fiducia pubblica nel concessionario che è il gestore di metà della rete italiana. Grazie agli sviluppi di un’inchiesta giudiziaria svolta con cura e rigore, l’anno trascorso ha ampiamente confermato quanto quella caduta di fiducia fosse motivata. Il gestore è rimasto al suo posto, ha continuato a incassare pedaggi generosamente concessi da regolatori pubblici disattenti e ne ha ricavato i consueti alti profitti, in grado di finanziare senza problemi gli oneri della caduta. L’unica revoca che è intervenuta nel frattempo ha avuto per oggetto non la concessione del gestore bensì il ministro che con più intensità si è espresso e ha agito in favore della medesima. Toninelli delendo est, s’intende dalla compagine governativa, hanno continuato a scrivere i giornali per tutto il tempo intercorso sino all’effettiva revoca del ministro, avvenuta grazie alla caduta del governo proprio alla vigilia dell’anniversario della tragedia del ponte. Un evento provvidenziale per i sostenitori dello status quo. Così la concessione è tuttora in piedi, in attesa che ritorni tale anche il ponte nel bel disegno di Renzo Piano, ma è indifendibile agli occhi dell’opinione pubblica e lo sarà sempre di più con gli sviluppi dell’inchiesta. E non solo essa è rimasta indenne ma l’azionista di controllo del gestore autostradale è stato riammesso con grande rapidità e con piena dignità come interlocutore nel caso della crisi di Alitalia, addirittura come possibile salvatore. Questa cosa è ancora più indigeribile per i cittadini che conservano intatto il senso di giustizia di quanto non lo sia la conservazione stessa della concessione. Esistono dei limiti deontologici che la politica, per sua natura tendenzialmente teleologica, non dovrebbe superare. Ora si è di fronte a un bivio: da un lato l’effettiva revoca della concessione, dall’altro il fare solo finta di perseguirla, sulla scia di uno storico gattopardismo italico, per approdare alla fine al mantenimento della medesima attraverso il fallimento della sua cancellazione.
PROVIAMO A ESPLORARE i due percorsi più probabili. Da un lato vi è la strada senza uscita della revoca amministrativa della concessione, giustificata dagli inadempimenti del gestore. La convenzione del 2008 prevede che anche nel caso di revoca per giusta causa il concedente deve comunque erogare al concessionario il valore attualizzato dei mancati guadagni sino al termine nel 2038 della concessione. In sostanza questa strada termina con un muro alto dagli 8 ai 20 miliardi di indennizzo. L’altro percorso è molto più sottile ed efficace. Poiché la convenzione fu approvata assieme ad altre analoghe in maniera truffaldina con una norma di legge, senza che i parlamentari potessero neppure prendere visione della medesima, rimasta segretata sino al 2018, si tratterebbe semplicemente di rimuovere con una nuova norma di legge tale approvazione. In questo modo cadrebbe il rivestimento pubblicistico del contratto di convenzione ed esso verrebbe privato degli effetti tra le parti sino a una sua eventuale differente approvazione per via amministrativa. Dovrebbe in sostanza essere riscritto da zero ma con una ben differente forza contrattuale da parte dello Stato. Si tratta quindi non di cancellare direttamente la concessione, perché si dovrebbero seguire le regole asimmetriche della convenzione, bensì di rimuovere per via legislativa la convenzione stessa, che ha sinora conservato il concessionario in una botte di ferro. Per questa norma serve una maggioranza parlamentare, che sino all’agosto scorso non c’era ma, considerando che nel 2008 il Pd votò contro l’approvazione, questa maggioranza potrebbe ora battere un colpo.