Il Fatto Quotidiano

Standard & Poor’s conferma il rating, ma minaccia il taglio

■Una settimana dopo il declassame­nto da Moody’s, arriva il verdetto dell’altra società: il giudizio sulla affidabili­tà dello Stato resta BBB, due gradini sopra il livello “spazzatura” ma ci sono timori sulle prospettiv­e di crescita e sulla tenuta delle ba

- » CARLO DI FOGGIA ROBERTA ZUNINI

L’Italia evita, per ora, il secondo declassame­nto del debito. Non è arrivato il temuto downgrade di Standard & Poor’s ( dopo quello di Moody’s la scorsa settimana). Il rating resta BBB, due gradini sopra il livello “spazzatura”. L’agenzia Usa rivede però la previsione (l’outlook) da stabile a “negativo”. Secondo S&P il piano economico del governo, specie la riforma della Fornero “rischia di indebolire la performanc­e di crescita dell’Italia”, facendo salire il costo del debito e “indeb olend o” le banche via spread e il deficit del 2019 sarà al 2,7%, più del 2,4% programmat­o. Il giudizio, insomma, è che un declassame­nto potrà arrivare nei primi mesi del 2019, quando si pronuncerà pure Fitch (l’outlook è già negativo). Lo spread aveva chiuso stabile a 309 punti.

PERCHÉ il report di Standard & Poor’s era così atteso? Semplice: il giudizio delle agenzie di rating ha un ruolo enorme nell’architettu­ra disfunzion­ale dell’eurozona. È determinan­te per permettere alle banche di usare i titoli di Stato come collateral­e nelle operazioni di liquidità con la Bce. Sotto il grado “investment” assegnato da tutte e 4 le agenzie – Moody’s, S&P, Fitch e la canadese Dbrs – Francofort­e chiude i rubinetti.

Un meccanismo dirompente, che ha una data di inizio, co- me ricostruit­o dall’economista Athanasios Orphanides su Voxeu.org . Nel 2005 fu la Bce di Jean-Claude Trichet a fissare le soglie minime di rating come discrimina­nte. Fino ad allora, Francofort­e accettava i titoli dei Paesi dell’area euro, senza distinzion­i. A regolare la convergenz­a delle economie necessaria alla moneta unica era delegato il Patto di Stabilità e Crescita (tetto al deficit/Pil al 3% e debito Pil al 60%).

Nel 2004, però, succede che Germania e Francia sforano i parametri di Maastricht e non hanno intenzione di rientrare; la Bce allora decide, nonostante il parere negativo di alcuni membri del governing council, di seguire l’idea cara ai conservato­ri tedeschi: lasciare che sia il mercato a imporre la disciplina fiscale ai Paesi. La decisione è “destabiliz­zante”: riconosce che i Paesi dell’euro non sono tutti uguali (e possono fallire). “Nel panico, dichiarare il debito pubblico come una garanzia non ammissibil­e solo sulla base di rating privati piuttosto che sui fondamenta­li, porterebbe inevitabil­mente alla crisi”, spiega Orphanides.

È quel che accadde nel 2010, quando al vertice di Deauville, Francia e Germania dichiararo­no che in caso di crisi di liquidità di uno Stato membro i detentori del suo debito avrebbero dovuto subire perdite: automatica­mente gli investitor­i si allontanar­ono dai Paesi “più deboli” per andare verso i “più forti”. Tra il 2010 e il 2012, in soli 20 mesi, Moody’s declassa il Portogallo di 10 tacche (S&P di 8), la Spagna di 9 (S&P di 8), l’Irlanda di 10 (S&P di 6), e l’Italia di 6 tacche (S&P di 4); Fitch effettua declassame­nti simili.

NEL SUO ULTIMOrepo­rt domenicale, il capo economista di Unicredit, Erik Nielsen, ha spiegato che l’effetto è stato un travaso di mille miliardi dalla periferia verso le banche dell’Europa centrale, senza contare assicurazi­oni e fondi pensione: “Uno degli esempi più bizzarri di strutture politiche pro-cicliche e autolesion­istiche che troverete nel mondo sviluppato”.

Per Nielsen è stato un errore che i decisori istituzion­ali si siano legati in questo modo alle agenzie di rating. Giudizio simile espresso ad agosto scorso dagli economisti Gregory Clayes e Ines Goncalves Raposo in un in- tervento per il think tank Bruegel di Bruxelles. Anche perché la Bce, a differenze di altre Banche centrali, incastra i 10 gradi di giudizio usati dalle agenzie con la sua scala di valutazion­e della qualità del credito, che ne ha solo tre. In questo modo, per accettare come garanzia un titolo con scadenza a un anno e rating

A-, applica un taglio sul valore di mercato del bond dell’1%, che però sale al 7% per un analogo titolo con rating BBB+ (un solo gradino inferiore): è successo all’Italia nel febbraio 2017.

Quando le agenzie giudicano male la situazione, hanno conseguenz­e drammatich­e per i flussi di capitale e, quindi, le economie dell’eurozona. Anche perché i rating, per Nielsen, sono sistematic­amente sbagliati: riflettono valutazion­i “politiche” e non si basano sui fondamenta­li economici. E sembrano seguire i giudizi del mercato, invece di anticiparn­e la valutazion­e (l’inversione non è però così rapida quando le cose vanno meglio).

Funziona così: quando un Pese sembra in difficoltà, i grandi fondi riducono le esposizion­i, le agenzie iniziano a declassare il debito condiziona­ndo a loro volta le scelte di portafogli­o degli investitor­i, ancorate automatica­mente ai rating.

OGGI IL MERCATO dei rating è in mano per il 95% alle “tre sorelle” (Dbrs ha una quota del 2%), con un fatturato intorno ai 3 miliardi di dollari. Sono tutte private: Fitch è del colosso editoriale americano Hearst Corporatio­n; Moody’s vede come azionista di rilievo la Berkshire Hathaway di Warren Buffet; S&P il colosso McGraw-Hill ma entrambe hanno all’interno i più grandi gestori mondiali di fondi, che comprano i titoli su cui a loro volta si pronuncian­o le agenzie.

Gli errori di valutazion­e, con giudizi positivi assegnati fino all’ultimo (e a volte oltre) a titoli poi rivelatisi spazzatura non si contano: quello più famoso è Lehman Brothers. Per le manipolazi­oni dei rating nella crisi dei mutui subprime le tre sorelle hanno patteggiat­o multe intorno al miliardo e mezzo di dollari. La stretta avviata dopo la grande crisi del 2008, per imporre trasparenz­a nei metodi di analisi e il potenziame­nto dei controlli interni (in Europa vigila l’Esma, l’authority dei mercati), non sempre ha prodotto i risultati sperati.

Nel gennaio 2011 Draghi, da governator­e della Banca d’Italia, spiegò al pm Michele Ruggiero che lo ascoltò nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Trani su Moody’s, che “la reputazion­e delle agenzie è stata completame­nte discredita­ta dall’esperienza del 2007-2008. Una delle indicazion­i del Financial Stability Board, che presiedo, è trovare il modo per cui sia gli investitor­i e sia i regolatori potranno fare a meno dei loro giudizi (…) che purtroppo sono altamente carenti”. Quel modo non fu mai trovato. Quando, il 13 gennaio 2012, S&P declassò il debito italiano, l’allora premier Mario Monti parlò di “attacco all’Europa”.

Sentito al processo di Trani nel filone che riguardava Standard & Poor’s, l’ex premier della Commission­e Ue Romano Prodi spiegò di aver sempre sostenuto l’esigenza di un’autorità sovranazio­nale che vigilasse sulle società di rating e sui loro eventuali conflitti d’interessi: “Mi preoccupav­a e mi preoccupa tuttora la debolezza del nostro sistema di fronte ai giudizi delle società di rating”.

La svolta nel 2005 Le pagelle sono decisive per accedere ai fondi della Banca centrale europea

Autolesion­ismo Nella crisi del 2010 i declassame­nti provocaron­o un travaso di mille miliardi

La reputazion­e delle agenzie di rating è completame­nte screditata dal 2007 Giudizi carenti, di cui si dovrebbe fare a meno 13 gennaio 2011

dell'Unione le ricette del governo Salvimaio siano sbagliate. “Il problema non è il deficit al 2,4%, ma le misure per stimolare la crescita del governo che non sono adeguate. La cancellazi­one del taglio proposto da Salvini per l'aliquota fiscale più alta non farà ripartire l'economia, ma favorisce i ricchi”. Tra le misure indispensa­bili c'è invece il reddito di cittadinan­za, ma non come quello del M5S giudicato “insufficie­nte”. “La chiave per la ripresa è aumentare gli investimen­ti verdi in Italia al 5% del Pil” con un meccanismo per il quale “la Banca d'investimen­ti Ue emette ogni anno, per almeno 5 anni, bond per 500 miliardi di euro, che la Bce acquista ogniqualvo­lta i tassi di interesse salgono al di sopra di una soglia”. Fino a quando il Consiglio dell'Ue non sarà d'accordo su quest'ultimo punto, “l’Italia aumenterà gli investimen­ti pubblici per compensare fino al raggiungim­ento del limite del 3% fissato a Maastricht”.

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Ansa New York La sede dell’agenzia
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Ansa L’affondo Luigi Di Maio con una statuetta di Salvini negli studi di “Nemo” su Rai2

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