Il caso Maroni: condannato in Europa, archiviato a Roma
“Decisione politica”. I giudici prosciolsero Pisanu e il leghista per i respingimenti La Corte europea dei diritti umani sanzionò l’Italia: 15mila euro a 22 migranti rimandati in Libia
“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Era contenuto in questa frase, pronunciata il 2 febbraio 2009, il programma “cattivista” di un predecessore illustre di Matteo Salvini, Roberto Maroni. Preannunciava i rispingimenti dei migranti cominciati nel maggio successivo, un’azione portata avanti nonostante le contestazioni del mondo cattolico e delle organizzazioni (governative e non) e una denuncia penale di quattro parlamentari radicali eletti col Pd: ne nacque un’inchiesta della procura di Roma per abuso d’ufficio che fu archiviata dal tribunale dei ministri nell’ottobre 2009, come fu archiviata nel marzo 2006 quella contro un altro capo del Viminale, Beppe Pisanu, anche lui sotto inchiesta per abuso d’ufficio (dopo la denuncia contro ignoti fatta da alcuni parlamentari di centrosinistra) per le presunte irregolarità nel respingimento di migranti arrivati a Lampedusa.
IN ENTRAMBI I CASI
i magistrati ritennero che le loro decisioni erano legittime. Nel caso di Pisanu il fatto rientrava “n el l’a mb it o dell’esercizio della discrezionalità politica, attività che esorbita dal vaglio della magistratura, anche perché il dicastero degli Interni ha lanciato una lunga serie di allarmi riferendo in Parlamento”. Nel caso di Maroni, invece, era “un atto politico non sindacabile in sede penale” che non voleva danneggiare i migranti. Anzi “al contrario le disposizioni ministeriali sono finalizzate a un efficace contrasto delle organizzazioni criminali”.
Tuttavia a sancire l’irregolarità della linea di Maroni fu un episo- dio per il quale l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo a risarcire 15mila euro a ciascuno dei 22 migranti respinti in Nord Africa irregolarmente. Il 6 maggio 2009 tre barconi con a bordo 227 persone, soprattutto somali ed eritrei, erano stati soccorsi in acque maltesi da motovedette italiane e, dopo l’ok di Tripoli (all’epoca ancora governata da Muammar Gheddafi, con cui c’era un accordo siglato nel 2007), furono riportati in Libia. “Un risultato storico”, annunciava Maroni il 7 maggio. L’ 11 maggio il Consiglio d’Europa intervenne per bocciare quegli interventi. “Si possono fare, ma non si possono fare senza rispettare i diritti umani – ammoniva il 13 maggio Marco Minniti alla Camera – Il diritto di asilo è un principio inviolabile della comunità internazionale”. Niente da fare, “il governo intende proseguire senza tentennamenti”, ribadiva Maroni spiegando che lo strumento dei respingimenti “è un deterrente, salva molte vite in mare e sta portando ad una drastica riduzione degli sbarchi”.
Nel frattempo, il 20 ottobre, il tribunale dei ministri archiviava, su richiesta della procura di Roma, la denuncia nei suoi confronti e il ministro dell’Interno proseguiva sulla sua linea: “I risultati ottenuti nel 2009 sono eccezionali – diceva il 10 gennaio 2010 – Basti pensare che nel 2008 sono arrivati ol- tre 30mila clandestini mentre nel 2009, quando abbiamo cominciato i respingimenti, solo circa 3mila, cioè il 10%. A dicembre 2008 ne sono sbarcati 2.786, nel dicembre 2009, invece, 123”.
Ok dei magistrati Il tribunale dei ministri ritenne quelle scelte un atto “discrezionale” o “non sindacabile”
INTANTO A STRASBURGO
la Corte europea dei diritti dell’Uomo vagliava l’esposto degli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Marcucci per conto di 24 dei migranti respinti il 6 maggio e poi rintracciati in Libia dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). La sentenza è arrivata nel febbraio 2012, quando a governare l’Italia c’era Mario Monti e in Libia non c’era più Gheddafi. Secondo Strasburgo l’Italia aveva violato la Convenzione europea sui diritti dell’uomo perché i profughi “furono esposti al rischio di maltrattamenti in Libia” e al rischio di “venire rimpatriati in Somalia ed Eritrea”. Inoltre aveva “disobbedito” al divieto di espulsioni collettive e non aveva concesso loro la possibilità di un ricorso contro il respingimento. Per Maroni quel verdetto fu una “incomprensibile picconata del buonismo peloso”.