La Palma d’Oro è una questione tra Italia e Cina
Stasera la premiazione: se la contendono “Burning” di Lee Chang-dong e il nostro Garrone con “Dogman”
Èsempre difficile stilare un toto Palma, ma quest’anno di più. La variegata e indecifrabile giuria, per input della presidenta Cate Blanchett, vorrà preferire una donna? Ben venga, noi abbiamo Alice Rohrwacher con il valente Lazzaro felice. A sparigliare le previsioni è un Concorso di buon livello, però senza nessun primus inter pares buono per ammazzare la concorrenza. Oddio, a dar retta alle stelline dei critici radunati da Screen, questo titolo cis are bbe: Burningd iLee Changdong, chec on un coefficiente di 3.8 su un massimo di 4 totalizza il più alto punteggio nella storia del dailya Cannes. Non vuol dire poi tanto, perché tra giornalisti e giurie le convergenze sono al più parallele, ma qualcosa sì: il triangolo lui povero, lei povera e l’altro ricco del regista coreano ha conquistato anche e soprattutto i palati più esigenti, perché a un primo livello thriller se ne aggiunge un altro meta cinematografico, volto a dipanare i rovelli creativi, le debolezze “caratteriali” e gli aneliti drammaturgici del mestiere di scrittore e, più in generale, di artista. Non ruberebbe nulla Burning, ci sarebbe da plaudire, ma al di là del campanilismo gli preferiamo D ogm an di Matteo Garrone.
GIÀ NELLE NOSTRE sale, vi rimarrà com’è giusto che sia, giacché la richiesta di sequestro preventivo avanzata da Vincenza Cornicella, la madre del pugile Giancarlo Ricci seviziato e assassinato nel 1988 dal Canaro Pietro De Negri, è stata rigettata dalla Procura di Roma. Del resto, Garrone ha sempre sconfessato simmetrie stringenti e analogie palesi, parlando di mera ispirazione. E non potrà che portar bene, alla cerimonia di premiazione di questa sera al Grand Théâtre Lumière, il trofeo già messo in bacheca dal cast canino: sintesi perfetta di cinefilia e cinofilia, la Palm Dog è stata ritirata sulla Croisette dal chihuahua in rappresentanza dell’alano e gli altri quattrozampe toelettati da Marcello Fonte.
Ecco, se il voto dei critici di Screena Dogmannon va oltre il 2.3, Fonte è il più forte candidato al prix d’interprétation masculine: il suo “amooree” è già cult, la prova di una umanità così profonda, comicità così tenera e dolenza così em- patica da sovrastare i rivali. Per scaramanzia, ne indichiamo tre: il John David “Figlio di Denzel” Washington diretto da Spike Lee in BlacKkKlansmann, il connazionale Andrew Garfield di Under the Silver Lake e, temibile, il Vincent Lindon di En guerredi Stéphane Brizé.
Sul versante femminile, le meglio piazzate sono Joanna Kulig, ovvero l’in na mo ra ta ballerina nel Casablanca polacco Cold War di Pawel Pawlikowski, e la cinese Zhao Tao di Ash Is Purest White del marito Jia Zhang-ke. Accanto al già ricordato war movie in fabbrica di Brizé, anche questi due titoli fanno sul serio per la Palma, e buone chance hanno il truffaldino e familiare Shoplifters del nipponico Kore-eda Hirokazu e – deve ancora passare – il turco The Wild Pear Tree di Nuri Bilge Ceylan.
Per amor di cinema, la prospettiva da scongiurare è la vittoria di Capharnaum della libanese Nadine Labaki: un melodramma nella guerra e nella miseria mediorientale furbescamente addossato sulle spalle dei due bambini pro- tagonisti, usati senza troppi scrupoli quali esche emotive. Un tot di stampa in visibilio, applausi copiosi quasi come le lacrime, e qualcuno che tira fuori l’e xemplum dei nostri film postbellici: a sproposito, questo “Cafarnao” è NeoIrrealismo.
INFINE, per il riconoscimento alla regia alza la manina Jean-Luc Godard con il montato, di nome e di fatto, Le livre d’image, eppure non può non dare nell’occhio l’assenza del più meritorio Lars von Trier: l’ipocrisia e la paraculaggine festivaliera hanno tenuto fuori dalla competizione il suo The House that Jack Built, ma poche storie è il vincitore (im)morale.
Già assegnati i premi delle parallele Semaine de la Critique , vinta da Diamantino, e Quinzaine des Réalisateurs, dove c’è gloria per Troppa graziadi Gianni Zanasi (Label Europa Cinema), il secondo concorso di Un Certain Regard laurea miglior film Gränsdi Ali Abbasi, mentre D onb ass di Sergei Loznitsa si distingue per la regia: a bocca asciutta il pur meritorio Euforia di Vale--
ria Golino. Fuori concorso e ora, eccetto che per la gestazione lunga quasi tre decenni, anche dalla storia del cinema The Man Who Killed Don Quixote,
diretto e faticosamente portato sulla Croisette da Terry Gilliam: progetto sfigatissimo, da ultimo pure fratricida (Gilliam e il produttore Paulo Branco hanno litigato, c’è voluto il giudice), più gli avrebbe giovato rimanere una grande incompiuta, con tanto di bel documentario ad hoc ( Lost in
La Mancha, 2002), che risol- versi in un guazzabuglio di arte-vita, scena-backstage, verità-finzione convulso, fesso e puerile. Il povero Sancho Panza Adam Driver più che recitare si rassegna, il donchisciottesco Jonathan Price si sbatte senza requie né quid, Olga Kurylenko è solo bella, tal Joana Ribeiro da Palm Dog anche lei: macché Cervantes secondo l’ex Monty Python, sembra l’Albero Azzurro sotto acido, ma nemmeno troppo.