Con le sanzioni si fermano gli investimenti italiani in Iran e lo Stato rischia 5 miliardi
L’espansione delle Ferrovie, incognita sulle garanzie pubbliche
Nel migliore dei casi non succederà niente: in queste ore al ministero degli Esteri l’opinione prevalente è che quello di Donald Trump sia un bluff. Dice di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran del 2015 ma rinvia l’effetto della decisione di tre mesi, così lascia tempo ai partner ragionevoli – cioè il governo di Teheran e l’Unione europea – per ridiscutere le condizioni con impegni più vincolanti e poi presenterà all’opinione pubblica americana il risultato come un successo della Casa Bianca.
ANCHE L’INCERTEZZA però ha delle conseguenze sulle scelte delle imprese italiane che da due anni hanno puntato all’apertura del mercato iraniano. Da agosto, per esempio, le Ferrovie dello Stato guidate da Renato Mazzoncini hanno smesso di parlare del loro maxi- progetto, lo sviluppo dell’Alta velocità iraniana nella tratta Qom-Arak e Teheran- Hamedan. Un contratto da oltre 1,2 miliardi di euro in cordata con la compagnia locale Rai. In questo contesto meglio non fare neppure un comunicato stampa o una dichiarazione, tutto congelato.
Gli scambi commerciali tra Italia e Iran sono arrivati al picco di 7 miliardi nel 2011 per crollare a 3,6 nel 2012 con le prime sanzioni volute dagli Stati Uniti. Tra 2016 e 2017, grazie all’accordo propiziato dall’ex presidente Usa Barack Obama, c’è stato un nuovo boom – da 2,6 a 5,1 miliardi – che rischia però di essere di breve durata.
Il governo Renzi e poi quello Gentiloni hanno scommesso sul legame preferenziale con Teheran (l’Italia è il primo partner commerciale in Europa) al punto da infilare nella legge di Stabilità 2018 una norma che ha molto irritato il governo di Israele, primo avversario dell’Iran nell’area. Il ministero del Tesoro ha preso l’iniziativa per sbloccare 5 miliardi di finanziamenti con questo schema: il soggetto iraniano si impegna nell’acquisto di beni, servizi o infrastrutture dall’impresa italiana e si fa finanziare la commessa dalle banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank che hanno una garanzia dalla Repubblica Islamica. Ma poiché resta il rischio Paese (tradotto: il governo di Teheran cade o decide di chiudere i rubinetti o è costretto a farlo da eventuali nuove sanzioni), serve anche una garanzia dal lato italiano. Che ammonta a ben 5 miliardi di euro.
Invitalia Global La norma per agevolare l’export italiano può trasformarsi in un salasso per le casse pubbliche
SI TRATTA di un’assicurazione concessa da Invitalia Global Investment, una controllata di Invitalia, società pubblica che deve facilitare gli investimenti esteri. C’è il piccolo problema che le risorse
stanziate a fronte dei 5 miliardi di garanzia sono soltanto 120 milioni di euro per il 2018. Se sale il rischio politico – come inevitabile nel caso di nuove sanzioni americane – aumenta anche la possibilità che lo Stato italiano debba pagare somme rilevanti nel caso saltino gli investimenti finanziati.
Perché il vero danno di nuove sanzioni Usa sarebbe proprio sul sistema finanziario: se si torna al livello del 2013, le banche europee e quindi anche italiane, devono scegliere se operare nel mercato americano o in quello iraniano, non possono fare entrambe le cose. Intesa Sanpaolo ha già dovuto pagare u- na pesante sanzione da 236 milioni di dollari a fine 2016 per non aver vigilato sulle operazioni con controparti iraniane, mancavano cioè i controlli per assicurarsi che i soldi non finissero a soggetti colpiti da sanzioni.
LA MINACCIA delle sanzioni rischia di complicare gli investimenti dell’Iran nel settore strategico per la Repubblica islamica, cioè l’estrazione di petrolio, ma anche in altre fonti di preziose commesse per le imprese europee. Iran Air, per esempio, dopo la fine delle sanzioni aveva ordinato 118 nuovi velivoli Airbus, con il piano di arrivare a 500 nuovi aerei in dieci anni. Ora è tutto in forse.