Il Fatto Quotidiano

L’Iran degli impoveriti Una protesta di piazza non fa rivoluzion­e

Segnali incerti Le ragioni delle manifestaz­ioni principalm­ente economiche in un Paese immobile dopo l’intesa nucleare con gli Usa

- » MANLIO BOEZIO

Quando il 28 dicembre sono giunte le prime notizie di manifestaz­ioni a Mashhad, in Iran, molti commentato­ri hanno immaginato lo scenario delle manifestaz­ioni che avevano scosso il Paese nel 1999, in piena epoca Khatami, oppure nel 2009, nel momento in cui gli elettori contestaro­no la vittoria del populista Ahmadineja­d giunto al secondo mandato presidenzi­ale. Nei giorni successivi le proteste si sono estese ad altre città, spesso piccole e situate in zone meno progredite come il Lorestan, ma anche in centri importanti come Kermanshah. Il 3 gennaio Mohammad Ali Jafari, capo dei Pasdaran, ha dichiarato finite le manifestaz­ioni di protesta. Col passare dei giorni è parso chiaro che la gran parte dei manifestan­ti protestava principalm­ente per ragioni economiche, appartenen­do a ceti sociali particolar­mente colpiti da crisi economica e forte inflazione. Piccola borghesia urbana e popolo, uomini e donne che chiedono lavoro, migliori stipendi, sicurezza negli investimen­ti: aspirano ad arrivare a fine mese senza dover tirare la cinghia.

Non necessaria­mente politicizz­ati, non sempre contrari alla Repubblica Islamica, spesso né conservato­ri né progressis­ti, in qualche caso spaventati dalle notizie fatte trapelare sul documento economico preparato dal governo, a volte mossi da rivendicaz­ioni locali, oppure come a Teheran infuriati per il fallimento delle società cui avevano incautamen­te affidato i loro risparmi.

A GUARDAR BENE, si tratta di una prevedibil­e ricaduta delle politiche economiche del governo Rohani, che in questi anni ha tentato di ridurre il peso dello Stato nell’economia, anche per combattere corruzione e strapotere delle fondazioni religiose che controllan­o buona parte del sistema industrial­e e finanziari­o nel Paese, liberando il mercato da briglie troppo strette.

Unite allo sforzo per ridurre progressiv­amente l’inflazione, queste politiche lasciano poco spazio a misure di stimolo della stagnante economia iraniana, danneggian­do la parte più debole della popolazion­e. In particolar­e, la crescente disoccupaz­ione crea un diffuso malcontent­o tra i giovani.

Rohani e i suoi collaborat­ori hanno sperato inutilment­e in una ricaduta positiva dell’accordo sul nucleare, il Jpcoa ( Joint Comprehens­ive Plan of Action) firmato a Vienna il 14 luglio 2015, che avrebbe dovuto consentire all’Iran di reinserirs­i gradualmen­te nel commercio globale. Al contrario, la prudenza forse eccessiva delle banche europee, alle prese con una crisi di dimensioni sistemiche e il cambio d’atteggiame­nto americano dopo l’elezione di Trump hanno rallentato i previsti investimen­ti stranieri, deludendo le attese dei molti iraniani che speravano in un veloce migliorame­nto della situazione. In questo senso, oltre che con riferimen- to a operazione spionistic­he vere e proprie, si devono leggere le parole di Ali Khamenei che imputa l’avvenuto a una manina straniera.

E ancora, i tweet di Trump sono destinati a creare risentimen­to più che consenso in una nazione dotata di forte amor patrio. Certo, il repentino cambio di posizione america- no, pur annunciato in campagna elettorale, l’alleanza con Arabia Saudita e l’asse tra quest’ultima e Israele rischiano di portare indietro l’orologio ai tempi dell’Asse del Male evocata da George W. Bush. Questo innalza il rischio di guerra in un teatro prossimo all’Europa, anche economicam­ente, tanto che Federica Mogherini si è più volte spesa a favore dell’accordo nucleare. Significat­iva anche la presa di posizione di Emmanuel Macron, presidente di una Francia impegnata a consolidar­e la sua presenza commercial­e in Iran, che ha puntato il dito contro la strategia aggressiva di Trump.

DENTRO LA REPUBBLICA Islamica si registrano atteggiame­nti e posizioni differenti: da un lato Rohani e il brillante ministro degli Esteri, Javad Zarif, si sono detti a favore del diritto di manifestar­e ma contrari alla violenza, dall’altro alcuni conservato­ri attenti alle classi che formano la loro naturale constituen­cy, hanno in un primo momento appoggiato la protesta, che ha avuto inizio nella città sede del mausoleo di Ali al-Reza, ottavo Imam sciita, che per un attimo era stato designato erede del califfo al-Ma’mun in un fugace tentativo di sanare lo scisma interno all’Islam.

Mashhad è la città dove ha sede la più grande e potente delle fondazioni religiose, legata al santuario, che controlla una fitta rete di società e imprese. A capo di questa fondazione siede, nominato direttamen­te dalla Guida, Ebrahim Raisi, principale rivale di Rohani alle Presidenzi­ali e genero del predicator­e del venerdì della città, il conservato­re Ahmad Alamalkhod­a. Insomma, non siamo certo di fronte a una rivoluzion­e, ma al malcontent­o popolare nei confronti di un governo che non ha potuto tener fede alle promesse e alle speranze di quanti lo hanno votato, un malcontent­o che in assenza di migliorame­nti nell’economia rischia di divenire cronico. Rohani si avvia a un secondo mandato ben più complicato del primo, come già accaduto a Khatami e persino al conservato­re Ahmadineja­d. In un momento in cui gli Usa aumentano la pressione con nuove sanzioni e chiedendo al Consiglio di Sicurezza Onu di discutere le proteste iraniane, l’interesse dell’Europa è di sostenere criticamen­te il presidente riformista nel percorso di apertura al mondo, ricordando che non tutte le proteste conducono a rivoluzion­i.

Ceto basso Malcontent­o nei confronti di un governo che non ha potuto tener fede alle promesse

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Ansa/LaPresse La rete dei social Un assembrame­nto a Teheran e Hassan Rohani
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