Tra i disperati del Po: “Senza luce a cercare vivi e morti”
IN BARCA TRA CORBOLA E ADRIA, TRA RICHIESTE UMILI E AFFANNOSE
Cade da un davanzale un grido: ‘Siamo in ventitré e senza nulla da bere, l’acqua è finita’ Ecco uno straccio bianco, la bandiera della fame: ‘Siamo in quaranta, con otto bambini, dateci per carità qualcosa’
L’alluvione del Polesine 14 novembre 1951: il fiume tracimò dall’argine. Rovigo, Ferrara e Mantova le zone più colpite. Il cronista fu inviato ad Adria e dintorni
L’alluvione del Polesine, la più grande per estensione delle terre allagate avvenuta in Italia. Cominciò il 14 novembre 1951. La cronaca: alle 19.45 il Po tracimò nell’argine maestro a Vallone di Paviole, nel Comune di Canaro, alle 20 ruppe in località Bosco, Comune di Occhiobello, un quarto d’ora dopo la terza falla in località Malcantone. La provincia più colpita fu quella di Rovigo, poi Ferrara e Mantova: cento le vittime, centottantamila i senza casa
Con la gente della città assediata » ENZO BIAGI Adria, 19 novembre 1951 dal nostro inviato
Sono tornato ad Adria. Ho trascorso lunghe ore con la gente che aspetta. Mi sono fermato nelle corsie dell’ospedale e nell’ufficio del sindaco; ho attraversato – in barca o in moscone – strade e piazze; ho visto scendere, col paracadute, i primi soccorsi; ho conosciuto insomma, gli aspetti più tragici della miseria e della disperazione.
Ho lasciato Corbola poco dopo l’alba. La barca che mi ha accolto come passeggero, era condotta da pescatori di Porto Garibaldi. (…) Tre chilometri separano Corbola da Adria, ma occorre, per compierli, oltre un’ora. (…) Cade da un davanzale un grido: “Siamo in ventitré e senza nulla da bere, l’acqua è f in it a”; ecco uno straccio bianco, la bandiera della fame: “Siamo in quaranta, con otto bambini, dateci per carità qualcosa”, e ancora un papà, da un abbaino urla minaccioso: “Ah, se posso uscire!”. La strada si riempie di appelli accorati, e spesso bisogna non udire quelle richieste umili o affannose, dimenticare le rabbiose imprecazioni, le bestemmie.
DA UNA SPECIEdi tana spunta un ometto rinsecchito, che cala la sua pignatta; gli diciamo che venga con noi, ma si affretta a chiudere lo sportello sdegnato: “Io morirò qui”. Molti non vogliono ancora convincersi che l’esodo è as- solutamente indispensabile, che non si può restare ad Adria, che Adria dovrà essere completamente sgombrata. “Perché dobbiamo lasciare tutto nelle mani dei ladri”, mi diceva una signora. Ma intanto l’acqua cresce, e qualche casa crolla. Tre metri, tre metri e mezzo, in alcune zone; in altre, trenta o quaranta centimetri. (…) Pochi dispongono di stivali di gomma; oggi sono arrivate le prime pagnotte; ho notato una sola macelleria aperta nel centro e ho incontrato donne e ragazzi che si muovevano, scalzi, con le gambe completamente scoperte, nell’acqua diaccia alla ricerca di una razione. Non hanno neppure notizia di quanto accade nel mondo, non hanno, come è noto, la luce, e anche cucinare è problematico.
Otto ammalati gravissimi e intrasportabili son rimasti nel solo reparto in funzione dell’ospedale; qualcuno domanda con voce flebile, se il livello cresce. Ma nessuno ha il coraggio di dir loro la verità. Sono transitato vicino alla chiesa della Tomba, dove in una scuola molti bambini attendevano una sia pur scarsa razione per troncare il digiuno.
POI SONO ANDATO al Municipio, dove ho avuto un lungo colloquio con la senatrice Merlin. Sul cielo volavano due apparecchi che sganciavano carichi di viveri; mi è passato pure vicino un anfibio carico di salami e mortadelle. La signora Merlin ha animato la resistenza di Adria. Questa amabile donna, dai candidi capelli, che ha conservato lo spirito e i sentimenti umanitari delle maestrine educate da De Amicis e da Andrea Costa, si è battuta, con rara forza d’animo, per le sciagurate popolazioni del suo collegio elettorale. È arrivata qui venerdì scorso, col preciso scopo, mi ha detto, di indurre i cittadini a sfollare. “Sono andata nei rifugi a scongiurarli; c’erano mamme con sei o otto figli (son tutti poveri e pieni di figli, da queste parti) ma ormai non avevamo a disposizione che tredici automezzi. E ci segnalavano di continuo l’estendersi de ll ’ inondazione, vedrete che il numero dei morti sarà una tremenda sorpresa, quando potremo contarli”.
Le fotoelettriche di Corbola illuminano drammatiche scene » ENZO BIAGI Corbola, 23 novembre dal nostro inviato
Erano passate da poco le dieci. Cadeva qualche goccia. I pescatori di Goro, e i marinai romagnoli, si eran già sdraiati sul fondo delle battane, o in angolo riparato del barcone, per chiudere un occhio. Il soldato addetto al centralino della base di Corbola stava scrivendo una lettera alla ragazza. Nella stanza da pranzo della “Trattoria degli autisti”, il generale Petroni esaminava, al lume di una lampada, gli ultimi dispacci. Pareva che la giornata fosse conclusa. Solo le ronde battevano i piedi s ul l ’ asfalto umido, stancamente. Gli operatori delle fotoelettriche gettavano fasci di luce fredda sull’i mmensa laguna. Ma a un tratto si udirono delle grida: “Allo zuccherificio di Bottrighe chiamano aiuto”.
Lo stabilimento è allagato. L’acqua ha coperto i macchinari, i gabinetti delle ricer-
che chimiche, gli immensi magazzini stipati di sacchi. Sono rimasti sul posto soltanto i guardiani che vigilano su quelle cose morte, su quelle ricchezze perdute.
Due uomini durante la consueta ispezione, erano finiti in una camera allagata, e vi erano rimasti bloccati. Non sapevano neppure nuotare, e intanto l’acqua saliva, e il liquido sporco e gelato intorpidiva le membra, toglieva loro il respiro. Si facevano coraggio a vicenda, e ogni tanto provavano a urlare, ma nessuno li sentiva, e l’acqua ancora cresceva. Disse uno: “Rimarremo qui dentro, per sempre. Ci siamo salvati dall’inondazione, ma da qui
non si va fuori. Chi vuoi che venga a prenderci?”. Disse l’altro: “Preghiamo”. Ormai l’acqua copriva le spalle dei due prigionieri. Gridarono insieme: “Aiuto”. Poi tacquero. Il vento portò quella invocazione verso la riva. C’era ancora chi vegliava, e qualcuno partì per dare l’allarme. Allora i pontieri saltarono su un motoscafo e, guidati dalla scia dei riflettori, puntarono verso quella stanza dove stava per entrare la morte. Si immersero nella corrente, ma riuscirono ad afferrare quelle braccia che, disperatamente, cercavano una mano amica. Dissero i due guardiani: “Quando tutto sarà finito fa-
remo costruire una nicchia e vi poseremo una statuetta di San Cristoforo, che portò Gesù attraverso le onde”.
POI LA LUCE dei grossi fari si spostò in un altro punto, verso il reparto Maternità dell’ospedale di Adria. Si era saputo che una donna era stata colta dalle doglie, ma nella città non c’è energia elettrica e i medici visitano e operano in ambienti rischiarati dalle candele. Allora i soldati orientano quelle sorgenti luminose sui padiglioni, sulle corsie, dove un bimbo stava per affacciarsi a questo mondo. (…) Più tardi albeggiò e vedemmo spuntare i rossi anfibi dei vigili. C’erano a bordo non
molti passeggeri. Disse il comandante del primo scafo: “Ad Adria, il livello è andato su di dieci centimetri, e sulla superficie affiorano spesso carogne di animali, e vedrete che tra non molto scoppierà qualche caso di tifo”. (…)
Dal primo anfibio scese una giovane bionda, una bella ragazza, che dava la mano a un bambino di sette o otto anni. Si lamentava sommessamente e padre Vittorino, un piccolo carmelitano di Monza, le domanda cosa avesse. C’era un uomo con lei, lo zio, che intervenne con rabbia: “È una cretina, una stupida!”. “Reverendo”, disse la ragazza, “lo lasceranno a me? È il mio questo bambino. È tutto quello che ho. Non so neppure chi è suo padre, sta laggiù in Russia, era un soldato, non ne ricordo neppure il volto. Mi presero i tedeschi, durante la guerra. Poi vennero i russi. Una notte, nel dormitorio, entrarono degli uomini e ci furono addosso. È nato questo bambino, capisce, non ho che lui, non voglio darlo a nessuno”. Padre Vittorino quella confessione lo sgomentò ma si riprese subito: “Figliola – disse – nessuno vuol dividere i bambini dalle madri. Resterà con te. Starete uniti. Va in pace”. E la ragazza se ne andò rasserenata, dando la mano a un bimbo dai capelli chiari, un bimbo nato senza amore.
Segnalavano l’estendersi dell’ondata Vedrete che il numero dei deceduti sarà una tremenda sorpresa, quando li conteremo
LINA MERLIN Quando tutto sarà finito faremo costruire una nicchia per tenere una statua di San Cristoforo
I GUARDIANI SALVATI