Turchia, tra gli jiahadisti stanchi e imborghesiti
AL QAEDA Viaggio tra i miliziani ormai disillusi
■Da quando la Russia ha iniziato a bombardare i ribelli hanno perso lucidità strategica e militare. E il colpo di grazia è arrivato anche dalle mogli. Di Siria si parla sempre meno, i combattenti hanno la testa altrove. è tempo di investire i guadagni di questi anni
“Non ha senso continuare così. Non ha senso, davvero”. L’uomo che chiamerò Hadi, e che mi sta davanti stravolto, è il comandante dell’unità di al-Qaeda con cui vorrei rientrare in Siria. Ma è il 6 aprile, e a Khan Sheikhun c’è appena stato un nuovo attacco chimico. “Vieni subito”, mi ha detto al telefono, “è urgente”. Gira voce che alcuni vogliano andare via. Trovo Hadi nella hall di un hotel. Lo sguardo perso. “Giuro, io ho tentato il possibile. Ma certe cose, alla fine, dipendono da entrambe le parti. Uno, no?”, ci prova. Anche se sta franando tutto. Ma è inutile. Uno, due mesi di calma: e tutto ricomincia. Da anni è così. Non ha senso. Mi guarda. “Dio giudicherà, e forse sbaglio. Ma la priorità è il bene dei miei figli”. In effetti, dico. Ormai, è tutto in macerie. E quindi, che avete deciso? Si accascia sul cuscino. Affranto. “Abbiamo deciso di divorziare”.
L’OPPOSIZIONE siriana è allo sfascio. Da quando la Russia, nell’autunno del 2015, ha iniziato a bombardare tutto e tutti, i ribelli hanno perso lucidità strategica e militare. Ma il colpo di grazia è arrivato dalle mogli. Perché quella che chiamiamo radicalizzazione, in fondo, significa avere sposato un farmacista, un idraulico e ora ritrovarsi un jihadista in casa. E spesso, anche un paio di altre mogli. Per noi è materia da sociologi e psicologi: qui è materia da padellate in testa. Sei anni fa, Hadi era un placido tappezziere. Ascoltava Céline Dion, e i suoi due migliori amici erano alawiti. “Ma se a settembre siamo anche stati alla Mecca!”, dice adesso. “Ma che altro cerca? Ha l’elettricità! Ha l’acqua! Ha tutto!”.
Anche il ragazzo che è con Hadi non è molto concentrato su Assad. Sua moglie vuole trasferirsi dalla sorella, che ha avuto asilo in una piccola città del Canada. Lui invece vuole rimanere a Idlib, l’ultimo bastione di al-Qaeda. Così che i figli possano crescere in un ambiente internazionale, dove per “internazionale” intende jihadisti di tutto il mondo.
Gli unici che si ostinano a parlare di Siria, qui, siamo noi giornalisti. I ribelli hanno la testa altrove. Anche perché è tempo di investire i guadagni di questi anni: chiedi come va, e di istinto, non ti rispondono come va la guerra, ma come va il negozio che hanno aperto in Qatar. Eppure, la guerra è forse nei suoi giorni decisivi. Ai negoziati di Ginevra tra Assad e l’opposizione, coordinati dall’Onu, si sono affiancati quelli di Astana, la capitale del Kazakistan, tra Iran, Russia e Turchia. E il 4 maggio sono state definite delle aree di cosiddetta de-escalation. Non solo Assad si è impegnato a sospendere anche i bombardamenti, finora esclusi dalle tregue, ma soprattutto, lungo le linee di demarcazione saranno schierati degli osservatori internazionali. E tutto questo si interseca con una serie di cessate il fuoco conclusi a livello locale sul modello dell’Accordo delle 4 città, siglato il 29 marzo: quando combattenti e attivisti di Madaya e Zabadani, città sunnite vicino Damasco, si sono arresi e trasferiti a Idlib, mentre quelli di Fuaa e Kafraya, città sciite vicino Idlib, si sono arresi e trasferiti vicino Damasco. Sembrano tregue ma sono scambi di popolazione per una ripartizione della Siria su base confessionale. Come in Libano, Bosnia e Iraq. Tre paesi in cui la guerra è stata chiusa così.
E che oggi sono tutti alla bancarotta politica, economica e sociale. Un tempo, i ribelli avrebbero tuonato che è il vecchio divide et impera. Ma ora, è difficile anche capire a chi chiedere una dichiarazione. In teoria, l’opposizione ad Assad è ancora rappresentata dalla Coalizione Nazionale, guidata adesso da Riad Seif. Ma è il sesto presidente in meno di cinque anni. Non fai in tempo a chiedere un’intervista che si sono già di- messi. L’unica opposizione ad Assad, in realtà, è Erdogan.
MA QUANDO diciamo “i siriani”, in fondo, cosa diciamo, ormai? Non solo 5 milioni sono all’estero: ma i migliori comandanti sono stati uccisi. Qui non sono rimasti che personaggi come un trentenne palestrato che chiamerò Adli, raccomandatomi da un diplomatico europeo. Mi è stato descritto come “il nostro punto di riferimento”. Mi bacia la mano, e mi dice cavalleresco: “Ma hai degli occhi magnifici... Vali minimo 10 milioni di dollari!”. È la mia quotazione come ostaggio. Prima della guerra, commerciava
auto usate. Nel senso che era un contrabbandiere. “Ma ti interessano anche le rovine?”, mi chiede mentre gli spiego quali aree della Siria vorrei raggiungere. No, dico. Preferirei incontrare persone. “Comunque – mi dice – ho degli ottimi pezzi da Apamea”. Pezzi di tombe romane. Sono questi, ormai, i nostri “siriani” con cui tentiamo di capire la Siria. Come se degli arabi provassero a capire l’Italia dagli spacciatori di Scampia.
Potrebbe sembrare, se non altro, una fine a questa guerra. Per logoramento. Il problema però è che il potere di Assad non è affatto solido come sembra. L’“esercito di Assad” è in realtà