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DA QUANDO ROGER NON GIOCA PIÙ...

Lo scrittore inglese Geoff Dyer ha dedicato a Federer il suo ultimo libro, un’ottima occasione per parlare di idoli, del pericolo di averne e del rischio di incontrarl­i (anche se a lui è andata bene).

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«Sono molto contento per Sinner, anche se purtroppo mi accorgo che il mio interesse per il tennis – quello ufficiale – stia declinando giorno dopo giorno, da quando Roger ci ha lasciati». Geoff Dyer chiama Federer per nome. Due anni fa, dopotutto, gli ha intitolato un libro di 300 pagine sulla fine del tempo, delle cose, della vita (Gli ultimi giorni di Roger Federer, il Saggiatore, 2022); il diritto è acquisito. «L’ho amato così tanto che non riesco a vivere il tennis dopo di lui. I campioni che mi capita di vedere, anche i più giovani, mi annoiano a morte. Si somigliano. Però certo, il tennis… appena finiamo questa intervista vado a farmi una partita qui fuori».

Per lo scrittore che rifiuta la specializz­azione e il brand da scaffale, l’esistenza stessa di Geoff Dyer, il fatto puro, si accompagna a benefici terapeutic­i. Nato negli anni 50 nel Gloucester­shire, ventenne oxoniano, ha dedicato la vita alla scrittura di libri su: guerre mondiali, scrittori tisici, land art e free jazz, Venezia e Varanasi, fotografe suicide e registi russi, eccetera eccetera. Dyer insomma scrive di quello che gli pare, e vive a Los Angeles da più di dieci anni, nel cuore della macchina stampa-idoli. Per anni, racconta lui stesso, la California è stata la terra promessa. «Ma una volta che vivi in California, non lo è più: è il posto in cui ti capita di vivere».

Nel suo ultimo libro, prima dei tanti affondi biografici delle ossessioni di una vita (Federer e Adorno, Beethoven e Didion, e tanti altri), Dyer dedica le primissime pagine anche all’idolo del gruppo forse più losangelin­o di tutti, o almeno l’ur-band di quelle terre, l’idea platonica: i Doors, alimentati già all’epoca dal mito di Jim Morrison. Parabola del mito che, non senza un piacere profondo, mi sento di percepire ai minimi storici. Ci caddi anch’io, per qualche mese scolastico, nella trappola morrisonia­na: la chioma, la nave di cristallo, il broncetto. Mi salvò una biografia che doveva essere agiografic­a e che sortì, seguendo le vie misteriose dell’intenzione letteraria, l’effetto contrario. Eppure, 50 anni dopo: “Sul muro del barbiere da cui mi faccio tagliare i capelli in Main Street a Venice Beach – dove i Doors mossero i primi passi – c’è un murale di Jim Morrison con le spalle nude e i lussureggi­anti capelli neri che sembravano non aver mai bisogno di un bel taglio. […] Sul lungomare c’è sempre almeno un artista che suona Break on Through, o uno degli altri grandi successi dei Doors”.

Sia la racchetta o il microfono, capita che l’idolo attraversi le porte della quarta dimensione. Ma a chi capita, e per quanto? «In inglese», mi dice Dyer, pensandoci su, «il contesto in cui si utilizza questa espression­e, “idolo”, direi che è praticamen­te confinato a quel modo di dire, com’è? “L’idolo ha i piedi di argilla”, ecco. Forse dice qualcosa sulla natura del carattere inglese. Non credo di avere mai avuto nessun idolo, e non penso di avere mai riverito nessuno, nella mia vita. Non ne sono capace. Ma questo non significa che non ho la capacità di amare e ammirare qualcuno, anzi mi sa che ne sono ben provvisto. Però idolatrare, riverire… sono azioni che non significan­o altro che sé stesse. Sono un vicolo cielo della ragione».

Tra le pagine più riuscite di Gli ultimi giorni di Roger Federer ci sono quelle dedicate all’ossessione di Nietzsche per Wagner, una relazione totalizzan­te per il primo, tormentata, a fuoco alto, e invece discreta, gestita a educata distanza dal secondo: tiepido nei momenti migliori. Dyer ne è convinto: «Quando hai un idolo, quando metti qualcuno sul piedistall­o, crei la premessa per la delusione. Pensa alle statue del mondo antico: sono più belle quando sono a pezzi».

È complicato, costruirsi un idolo. Ancora più rischioso è conoscere il proprio. A Geoff Dyer è successo da giovane, forse meglio chiamarlo maestro però, e si trattava di John Berger (critico d’arte, grande scrittore, pittore). La sua grande influenza; il genio tutelare che l’ha convinto a scrivere di quello che gli pareva, fedele a qualsiasi forma. Meglio, alla trasformaz­ione perpetua come unica forma possibile.

«È una storia che si ripete, no? Il giovane scrittore incontra l’idolo di una vita, e scopre i suoi piedi d’argilla. Scopre che l’idolo è un idiota. Ecco, quando avevo 24 anni ho incontrato Berger, lo scrittore che ammiravo sopra ogni cosa. E venne fuori che Berger non soltanto era un intellettu­ale brillante, eccezional­mente brillante, ma era una persona gentile. Una persona fantastica. È stato l’inizio di una lunga amicizia con lui, durata fino alla fine della sua vita. Con il tempo, la mia ammirazion­e aumentava proporzion­almente alla confidenza».

Scherzando, a Dyer gli amici chiedono quand’è che ammazzerà il padre. A distanza di anni non è ancora successo, e non succederà mai. «Sono grato di averlo conosciuto. È stato il primo vero scrittore – famoso – che ho conosciuto, e conoscerlo ha sùbito impostato un certo standard nel mio giovane alter ego: rinunciare a diventare persone pompose e arroganti è anche una questione di stile».

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 ?? ?? I Doors (dall’alto, in senso orario, da sinistra: Ray Manzarek, Jim Morrison, John Densmore e Robby Krieger) posano per una foto pubblicita­ria della Electra Records nel 1967 circa a New York City. Photo by Michael Ochs Archives/getty Images.
Nella pagina accanto, lo scrittore Geoff Dyer. Photo by Eva Vermandel/contour by Getty Images.
I Doors (dall’alto, in senso orario, da sinistra: Ray Manzarek, Jim Morrison, John Densmore e Robby Krieger) posano per una foto pubblicita­ria della Electra Records nel 1967 circa a New York City. Photo by Michael Ochs Archives/getty Images. Nella pagina accanto, lo scrittore Geoff Dyer. Photo by Eva Vermandel/contour by Getty Images.

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