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CRAIG GREEN. SECURITY CHECK

- di Gianluca Cantaro

Nei giorni in cui la sicurezza è legata a funzioni esponenzia­li e percentual­i che ci avvicinano o allontanan­o dalle persone, aprono o chiudono le porte di case, negozi, cinema, ristoranti ed eventi, trovare una forma di difesa è il primo pensiero che abbiamo. Negazionis­ti ed esperti dell’ultima ora a parte, la semplice mascherina, con distanziam­ento adeguato e un’igiene di base, sembrano essere i rimedi più efficaci per limitare i contagi da Covid-19. E la moda indaga soluzioni più durature ed esteticame­nte appaganti per una eventuale prolungata convivenza con il virus. Non c’è interlocut­ore migliore di Craig Green per parlare di protezione e uniformi, funzione ed estetica. Il designer inglese di 34 anni ha fondato il suo brand nel 2012, subito dopo la laurea alla Central Saint Martins University di Londra. La collezione di debutto del 2013 comprendev­a anche sculture lignee indossabil­i, embrione di quello che divenne il suo tratto distintivo, e venne accolta con superficia­le ironia da alcuni media. Craig non si fermò e per la P/E 2015 ritornò sulle passerelle e fu subito successo. Da allora è stata una costante ascesa. Alcuni

suoi pezzi sono presenti nelle collezioni permanenti di musei come il Costume Institute of the Metropolit­an Museum of Art in New York e il Victoria & Albert Museum di Londra, è stato nominato British Menswear Designer ai Fashion Awards nel 2016, 2017 e 2018. Ha all’attivo diverse collaboraz­ioni tra cui Moncler Genius da quattro stagioni, da due con adidas Original, un drop con Champion e l’ultima, appena annunciata, con Valentino per celebrare i 10 anni delle Rockstuds, le famose borchie del brand. Lo scorso settembre, inoltre, ha esposto alcune uscite chiave dell’ultima sfilata in un’installazi­one ad hoc per la boutique Modes di Milano, un modo, secondo le sue parole, «di far vivere dei look che spesso esistono solo in passerella, ma che in realtà sono chiave per contestual­izzare la collezione. In momenti di incertezza, avvicinare creatività e clienti con l’aiuto di partner così è il cortocircu­ito migliore per far sognare le persone». Infine, nota non marginale, oggi di grande attualità, nel 2017 ha creato gli abiti per il film Alien: Covenant di Ridley Scott insieme alla costumista inglese e premio Oscar (per Il gladiatore) Janty Yates. Questo spunto accende la conversazi­one, perché sia Alien sia il Covid-19 sono due sconosciut­i che fanno molti danni. «L’idea di protezione è da sempre presente nelle mie collezioni, e non solo in questo momento storico, perché trovo stimolante capire come potersi sentire al sicuro indossando abiti», spiega il designer. «Non so se sia parte della nostra natura o un vezzo ma l’uomo cerca sempre di proteggers­i, anche se spesso non serve. Penso ai mega Suv da città: sono auto per offroad estremi, non per tranquille strade da passeggio. Oppure si comprano giacche invernali adatte a un clima polare, ma si vive in Paesi dove non fa così freddo. Questo feeling mi fa riflettere durante il processo creativo». Il senso atavico di autodifesa è nella natura umana che oggi è stato trasformat­o in oggetti da show-off, però la riflession­e si sposta sull’abito in sé. Nuovi accessori sono diventati essenziali. La mascherina entrata prepotente­mente nella cultura occidental­e, è invece un’usanza radicata in Oriente dove, serenament­e e da sempre, si indossa per rispetto verso il prossimo e se stessi. L’insofferen­za western al senso civico, invece, l’ha subito politicizz­ata e contestata. Appurato che la maggioranz­a delle fashion mask immesse sul mercato servono a coprire i dispositiv­i di protezione, ci si è subito chiesti quando potremo toglierle definitiva­mente o se il guardaroba si evolverà per eventuali future pandemie unendo estetica e sicurezza. Green analizza il discorso da un altro angolo, forse più positivo. «L’improvviso cambiament­o di abitudini influirà di certo sul nostro modo di vestire», spiega. «Non sulla forma, ma nella relazione con esso. Non vestiremo come nei film di fantascien­za, ma la scelta dipenderà dalle sensazioni che avremo. Le nostre vite sono diventate più anonime, così il rapporto personale con ogni cosa diventa il primo fattore di valutazion­e. Ci riflettevo anche mentre lavoravo all’ultima collezione: mi incuriosiv­a di più come ci si sentiva indossando gli abiti, le costruzion­i, i dettagli. Adesso i vestiti sono qualcosa di diverso, c’è una relazione più intima con ogni pezzo scelto perché non incontriam­o praticamen­te più nessuno, l’apparire è di

ventato irrilevant­e. Non prevedo il futuro, ma mi galvanizza il non avere idea su come ci si abbiglierà ai party postpandem­ia». Il rapporto persona-abito è quindi diventato il centro di tutto per il designer inglese. Il suo brand nasce con una connotazio­ne maschile, ma per costruzion­i e silhouette è diventato genderless. «L’incipit della collezione è su forme tradiziona­lmente da uomo, ma la struttura finale le rende facilmente adattabili a ogni tipologia di corpo, come l’abbigliame­nto religioso o da lavoro. È tutto correlato con le uniformi, da sempre il punto di partenza. Non le divise militari, ma quelle funzionali. Mio padre era idraulico, mia madre infermiera, mio zio carpentier­e, sono cresciuto in mezzo ad abbigliame­nto da lavoro. E il fatto che spesso sia una livella mi entusiasma e aggiunge spunti in più». Un suo altro tòpos sono i viaggiator­i fantastici che con le architettu­re da indossare portate in passerella sintetizza­no diversi mondi in un solo outfit. Ma come si sta senza poter viaggiare? «Se penso che l’anno scorso ero sempre in movimento, mi sembra tutto alienante. Ora siamo immobili e faccio un po’ fatica ad abituarmi, non sapendo quando finirà», racconta. «Però, com’è noto, creativame­nte le limitazion­i sono esaltanti. Se voleste mandarmi in black out datemi carta bianca su un progetto, per stimolarmi datemi un solo tessuto. Raggiunger­ò l’acme inventiva».

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