Luciano Mecacci.
Anche se non
parla di psicoanalisi, oggi non c’è miglior
libro da presentare qui di Besprizornye. Bambini randagi
nella Russia sovietica 1917
(Adelphi, pagg. 274, € 22). Non solo perché
lo ha scritto Luciano Mecacci, che è il curatore
del volume di Alexander Etkind
a cui abbiamo dedicato questa pagina, ma soprattutto perché è anch’esso un’opera sulla memoria perduta
e ritrovata, un testo che dà voce alle vittime e ai testimoni della storia. Chi erano i besprizornye? Erano i bambini che, rimasti orfani in seguito alla
guerra, alla Rivoluzione e alla carestia, affamati, per la nuova scienza. Soprannominato “Penna” dai compagni di partito per le capacità di scrittura, fu subito affascinato dalla psicoanalisi alla quale guardò, strabicamente, come un modo per ricreare la personalità umana nello stampo socialista e che dunque sponsorizzò. Poi l’avvento della stagione stalinista spazzò via, con Trockij e tutto il resto, anche la psicoanalisi.
«In Russia», scriveva Freud a Jung nel 1912, «imperversa in questo momento un’epidemia locale di A [psicoanalisi]». Nel paesaggio variegato e cosmopolita di una cultura in fermento, affamata di pensieri nuovi e infiammata dalla diffusione della filosofia nietzschiana, le idee di Freud e Jung vennero infatti assimilate rapidamente, incontrando meno resistenze che in Europa. Questo non impedì, insieme all’entusiasmo, lo sviluppo di alcuni scetticismi d’artista. Una certa resistenza, scrive Etkind, era caratteristica degli intellettuali russi. Anna Achmatova, per esempio, prendeva in giro i giovani intellettuali inglesi in analisi da Freud. «Allora aiuta?» chiede la poetessa a un ospite in arrivo da Oxford, che poi era Isaiah Berlin. «Oh, sì! - risponde lui - Ma diventano così noiosi che con loro non si può parlare di niente». La stessa Lou Andreas-Salomé sconsigliò Rainer Maria Rilke dal farsi analizzare, perché con i demoni, diceva, sarebbe probabilmente scomparso anche l’angelo creatore. Quanto a Sergej Ejzenštejn, il suo rapporto con la psicoanalisi era molto ambivalente: ne era affascinato, ma la bistrattava: di Sigmund diceva «un nuovo Platone e un nuovo Aristotele si fondono nella personalità opprimente di un individuo dal nome wagneriano»; irriverente com’era si divertiva a chiamare “lebeda” la “libido” freudiana, e un giorno mise in riga il giovane amico Friedrich Ermler con queste parole: «se non la smetti di trastullarti con Freud, io smetterò di frequentarti. Sei uno scemo. Leggi Pavlov e vedrai che al mondo non c’è solo Freud!».
Il tour de force in cui ci trascina Etkind si prefigge l’obiettivo di ritrarre il contesto storico e umano della psicoanalisi in Russia, la teoria e la pratica, il momento prerivoluzionario e quello sovietico, la vitalità carica di malinconiche follie di una comunità trasversale che sfidava di continuo il confine tra la vita e il pensiero. «La tradizione russa», scrive, «non ha conosciuto e tuttora non conosce la specializzazione professionale abituale in Occidente. In Russia la cultura accademica e la cultura artistica si sono fuse con le correnti spirituali e le idee politiche». Nel suo racconto della psicoanalisi russa chiama infatti a raccolta non solo i medici e gli psicologi, ma anche i poeti simbolisti, i filosofi della religione e i rivoluzionari. E così come in Russia c’era tanta psicoanalisi, non dimentichiamo che anche in psicoanalisi c’era tanta Russia: per tutti i casi mi limito a citare il saggio di Freud del 1928 su Dostoevskij e il parricidio e il profondo rapporto tra Jung e il letterato Emilij Metner, curatore di una scelta di traduzioni junghiane in russo.
Nonostante la ricchezza vorticosa di informazioni, di circostanze e di riferimenti, il fascino di questo libro sta, come dice il titolo, nell’inafferrabilità di quell’eros intellettuale che afferra invece il lettore e anima il mistero del grande popolo russo. Che Rilke dipingeva così: «i veri russi dicono al crepuscolo quello che gli altri negano alla luce del giorno».