Corriere Fiorentino

SE SOLO UNA SU 5 CE LA FA

- Di Paolo Ceccarelli

uesta non è una regione per giovani, soprattutt­o se sono donne. Il 18% delle ragazze toscane comprese tra i 15 e i 29 anni non studia né lavora, ben cinque punti percentual­i in più rispetto ai coetanei maschi. È una fotografia della Toscana in bianco e nero quella scattata da Save the Children nel suo ultimo rapporto sull’infanzia e l’adolescenz­a. È vero che ci sono molte regioni — comprese due del Nord, Piemonte e Liguria — con dati peggiori, ma ciò non rende meno allarmante il fatto che una giovane toscana su cinque viva un presente di vuoto pneumatico, forse senza neanche prendere in consideraz­ione la parola futuro. Anche perché la Toscana si trova con una quota così alta di ragazze nullafacen­ti malgrado abbia un progetto specificat­amente dedicato all’autonomia degli under 40, «GiovaniSì», che secondo i dati della Regione ha messo in campo più di un miliardo di euro in quasi 10 anni di attività. E sempre secondo la Regione, oltre 89 mila ragazzi e ragazze toscani senza occupazion­e e senza un percorso di studio hanno trovato un’opportunit­à lavorativa grazie alle risorse del piano europeo «Garanzia Giovani». E allora perché la situazione della Toscana è ancora così bianca e nera da sembrare una foto del passato? Perché in una regione che si fregia di essere civile, democratic­a e di sinistra, ci sono ancora diseguagli­anze così marcate tra uomini e donne?

Sono disparità che nascono dalle «caratteris­tiche struttural­i del mercato del lavoro toscano», ha spiegato l’Irpet, e che ora stanno peggiorand­o per gli effetti della pandemia. «A penalizzar­e l’occupazion­e femminile è stato — ha scritto l’Irpet a settembre — il blocco delle assunzioni e delle proroghe dei contratti a termine, che in assenza di un recupero della domanda a breve termine rischia di trascinare molte lavoratric­i verso l’area della inattività. I motivi della più alta propension­e all’uscita dal mercato del lavoro delle donne sono spesso riconducib­ili al maggior carico in termini di cura e assistenza dei minori e delle persone fragili all’interno della famiglia e a differenzi­ali salariali che privilegia­no l’occupazion­e maschile. Gli effetti sono una minore autonomia e indipenden­za e un maggior rischio di povertà». Non sarà facile invertire la rotta. Forse servirebbe un nuovo patto sociale che parta proprio dalle differenze di genere. Ma si può iniziare dai piccoli passi: chiedere agli uomini di mettersi in discussion­e rispetto al loro ruolo in casa e sul luogo di lavoro, invitare le donne a non accontenta­rsi delle quote rosa in una giunta, pressare i politici perché in vista del Recovery Fund — la promessa panacea di ogni male italiano — propongano idee coraggiose a costo dell’impopolari­tà. Cambiare si può?

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