SE SOLO UNA SU 5 CE LA FA
uesta non è una regione per giovani, soprattutto se sono donne. Il 18% delle ragazze toscane comprese tra i 15 e i 29 anni non studia né lavora, ben cinque punti percentuali in più rispetto ai coetanei maschi. È una fotografia della Toscana in bianco e nero quella scattata da Save the Children nel suo ultimo rapporto sull’infanzia e l’adolescenza. È vero che ci sono molte regioni — comprese due del Nord, Piemonte e Liguria — con dati peggiori, ma ciò non rende meno allarmante il fatto che una giovane toscana su cinque viva un presente di vuoto pneumatico, forse senza neanche prendere in considerazione la parola futuro. Anche perché la Toscana si trova con una quota così alta di ragazze nullafacenti malgrado abbia un progetto specificatamente dedicato all’autonomia degli under 40, «GiovaniSì», che secondo i dati della Regione ha messo in campo più di un miliardo di euro in quasi 10 anni di attività. E sempre secondo la Regione, oltre 89 mila ragazzi e ragazze toscani senza occupazione e senza un percorso di studio hanno trovato un’opportunità lavorativa grazie alle risorse del piano europeo «Garanzia Giovani». E allora perché la situazione della Toscana è ancora così bianca e nera da sembrare una foto del passato? Perché in una regione che si fregia di essere civile, democratica e di sinistra, ci sono ancora diseguaglianze così marcate tra uomini e donne?
Sono disparità che nascono dalle «caratteristiche strutturali del mercato del lavoro toscano», ha spiegato l’Irpet, e che ora stanno peggiorando per gli effetti della pandemia. «A penalizzare l’occupazione femminile è stato — ha scritto l’Irpet a settembre — il blocco delle assunzioni e delle proroghe dei contratti a termine, che in assenza di un recupero della domanda a breve termine rischia di trascinare molte lavoratrici verso l’area della inattività. I motivi della più alta propensione all’uscita dal mercato del lavoro delle donne sono spesso riconducibili al maggior carico in termini di cura e assistenza dei minori e delle persone fragili all’interno della famiglia e a differenziali salariali che privilegiano l’occupazione maschile. Gli effetti sono una minore autonomia e indipendenza e un maggior rischio di povertà». Non sarà facile invertire la rotta. Forse servirebbe un nuovo patto sociale che parta proprio dalle differenze di genere. Ma si può iniziare dai piccoli passi: chiedere agli uomini di mettersi in discussione rispetto al loro ruolo in casa e sul luogo di lavoro, invitare le donne a non accontentarsi delle quote rosa in una giunta, pressare i politici perché in vista del Recovery Fund — la promessa panacea di ogni male italiano — propongano idee coraggiose a costo dell’impopolarità. Cambiare si può?