Corriere Fiorentino

IL GIOCO CORTO DEL CALCIO

- Di Antonio Montanaro

Si riparte, ma per andare dove? Domanda legittima dopo una lunga e dolorosa quarantena che ha rivoltato come un calzino il sistema socioecono­mico pre Covid-19. Tranne, a quanto pare, per la maggior parte dei signori del calcio che hanno fissato la ripresa della Serie A per il 13 giugno. Come se nulla (o quasi) fosse successo: dodici giornate, più quattro recuperi, da disputare a porte chiuse: una partita ogni tre giorni, fino alla fine di luglio. Se però tutto filerà liscio e non ci saranno nuovi contagi (ipotesi tutt’altro che scontata viste le caratteris­tiche del gioco): perché in caso contrario si blocchereb­bero di nuovo allenament­i e campionato, almeno per altri 14 giorni. «Noi siamo per giocare, ma dobbiamo stare attenti a non mettere in pericolo anche la prossima stagione», ha ammonito il direttore generale della Fiorentina Joe Barone. Una posizione — un po’ timida, per la verità — che però non ha trovato sponda negli altri presidenti che premono per far rimettere magliette, calzoncini e scarpini ai loro giocatori.

E ritorna la domanda iniziale: ripartire per andare dove? Perché quello che andrebbe in scena, se il governo dovesse dare il via libera definitivo, sarebbe uno spettacolo tristissim­o. Altro che occasione per risollevar­e gli italiani dai dolori della fase 2: niente pubblico, niente abbracci dopo un gol, niente strette di mano, attenzione massima ai contatti fisici. Insomma, un altro sport: a questo punto sarebbe meglio giocarsi scudetto, piazzament­i in Europa e salvezza alla Playstatio­n, magari trasmetten­do le partite in diretta sulle tv a pagamento. Il vero impediment­o a una soluzione senza rischi inutili per la salute (non solo dei calciatori), infatti, è proprio il nodo dei diritti televisivi. Molti presidenti temono di perdere l’unico distributo­re di benzina in grado di rifornire un motore che però è vecchio e malandato. Non sarebbe meglio, dunque, fermare tutto subito per impiegare tempo ed energie a cambiare il motore? Che senso ha — si chiedeva qualche giorno fa Mario Sconcerti sul Corriere della Sera — fare i salti mortali per mettere in sicurezza (tra l’altro precaria) una manciata di partite oggi e non pensare alle 380 della prossima stagione?

Vero, il calcio è un’industria e come tutte le industrie vive una crisi senza precedenti. Ma se pretende di ripartire da dove si era fermato, senza per esempio immaginare come riportare i tifosi allo stadio, rischia di perdere quella dimensione di passione collettiva che ancora riesce a coinvolger­e milioni di italiani. E allora sì che sarebbe la fine.

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