IL GIOCO CORTO DEL CALCIO
Si riparte, ma per andare dove? Domanda legittima dopo una lunga e dolorosa quarantena che ha rivoltato come un calzino il sistema socioeconomico pre Covid-19. Tranne, a quanto pare, per la maggior parte dei signori del calcio che hanno fissato la ripresa della Serie A per il 13 giugno. Come se nulla (o quasi) fosse successo: dodici giornate, più quattro recuperi, da disputare a porte chiuse: una partita ogni tre giorni, fino alla fine di luglio. Se però tutto filerà liscio e non ci saranno nuovi contagi (ipotesi tutt’altro che scontata viste le caratteristiche del gioco): perché in caso contrario si bloccherebbero di nuovo allenamenti e campionato, almeno per altri 14 giorni. «Noi siamo per giocare, ma dobbiamo stare attenti a non mettere in pericolo anche la prossima stagione», ha ammonito il direttore generale della Fiorentina Joe Barone. Una posizione — un po’ timida, per la verità — che però non ha trovato sponda negli altri presidenti che premono per far rimettere magliette, calzoncini e scarpini ai loro giocatori.
E ritorna la domanda iniziale: ripartire per andare dove? Perché quello che andrebbe in scena, se il governo dovesse dare il via libera definitivo, sarebbe uno spettacolo tristissimo. Altro che occasione per risollevare gli italiani dai dolori della fase 2: niente pubblico, niente abbracci dopo un gol, niente strette di mano, attenzione massima ai contatti fisici. Insomma, un altro sport: a questo punto sarebbe meglio giocarsi scudetto, piazzamenti in Europa e salvezza alla Playstation, magari trasmettendo le partite in diretta sulle tv a pagamento. Il vero impedimento a una soluzione senza rischi inutili per la salute (non solo dei calciatori), infatti, è proprio il nodo dei diritti televisivi. Molti presidenti temono di perdere l’unico distributore di benzina in grado di rifornire un motore che però è vecchio e malandato. Non sarebbe meglio, dunque, fermare tutto subito per impiegare tempo ed energie a cambiare il motore? Che senso ha — si chiedeva qualche giorno fa Mario Sconcerti sul Corriere della Sera — fare i salti mortali per mettere in sicurezza (tra l’altro precaria) una manciata di partite oggi e non pensare alle 380 della prossima stagione?
Vero, il calcio è un’industria e come tutte le industrie vive una crisi senza precedenti. Ma se pretende di ripartire da dove si era fermato, senza per esempio immaginare come riportare i tifosi allo stadio, rischia di perdere quella dimensione di passione collettiva che ancora riesce a coinvolgere milioni di italiani. E allora sì che sarebbe la fine.