Come un ponte tra due civiltà (e tra due musei)
Due sezioni principali agli Uffizi e al Bargello, e poi rimandi in altre sedi (lo Stibbert, la Biblioteca Nazionale, il museo Bardini, la villa Medicea di Cerreto Guidi). Il viaggio nei cimeli dell’Islam entrati in città nei secoli, a cui è dedicata la mostra Islam e Firenze. Arte e collezionismo dai
Medici al Novecento (apertura al pubblico da oggi al 23 settembre) ha un andamento diacronico. Indaga cioè con una successione temporale, la fascinazione per l’Oriente dai tempi di Lorenzo il Magnifico sino al secolo scorso. Con un incipit, agli Uffizi, nell’aula Magliabechiana ricoperta di stoffa blu e argento, che intende sedurre lo spettatore. Una giraffa anzi tre: la prima è quella impagliata — arriva dalla Specola — che il viceré d’Egitto Muhammad Alì Pasha donò nel 1835 al granduca di Toscana Leopoldo II, la seconda è raffigurata in un manoscritto che arriva dalla biblioteca Medicea Laurenziana e cita quella donata a Lorenzo dei Medici nel 1487 dal sultano mamelucco d’Egi t to Muhammad ibn Mafuz (nota per aver resistito in città meno di due mesi e già raffigurata in Palazzo Vecchio da Giorgio Vasari) e l’altra è un acquerello su carta di Jacopo Ligozzi, in cui l’animale è accanto a un moro.
Se volete l’incipit è un po’ la firma di questa esposizione: perché le sinergie tra Firenze e l’Islam in mostra «esplicitano — come ha ricordato Giovanni Curatola, a cui è affidata la curatela — un attenzione mediata dal gusto per l’esotico e il diverso » . Certo i rapporti commerciali furono assidui e frequenti, ma la commistione tra le culture sono limitate ad alcune espressioni d’arte. Una per tutte, L’Adorazione dei
Magi di Gentile da Fabriano (1423) dove le citazioni orientali si trovano nelle vesti arabascate dei magi, nei caratteri arabi sulla tracolla di uno dei personaggi del corteo, nella presenza di animali esotici tra cui un dromedario due scimmie. Quell’opera è un capolavoro di citazioni colte ed esotiche. Per il resto, agli Uffizi, dove le opere sono divise in dieci sezioni, spiccano degli esempi di vasellame ricchissimi, avori intarsiati (tra cui un olifante siciliano, custodito al Bargello che è un tripudio di bassorilievi), porcellane, stoffe e tessuti che spesso, pur essendo chiaramente ispirati alle decorazioni orientali, sono di manifattura italiana. Impressionante per dimensioni un tappeto a tre medaglioni del XVI secolo proveniente da Il Cairo che date la sue misure (10 metri per quasi 5) il curatore l ha definito «lo scendiletto di Dio».
Per la parte della mostra ospitata al Bargello sono stati scelti reperti più recenti. Qui l’impatto è diverso, forse più familiare, perché le quattro sezioni sottolineano la vocazione del museo della scultura la cui sezione islamica è una delle sue parti identitarie (con i 3.300 pezzi donati da Louis Carrand che ne costituiscono la collezione di arti minori con pezzi come è ovvio pregevolissimi). Le quattro sezioni sono dedicate a quattro grandi collezionisti. Intanto, come è ovvio, c’è quella di Carrand, in cui spiccano un Copriletto ricamato con motivi tratti dall’Antico Testamento e scene di caccia del XVII secolo (manifattura indiana), una magnifica Lampada da moschea in vetro soffiato e smaltata del XIV secolo (Egitto o Siria) e una Bottiglia a forma di elefante persiana del XVII secolo (era una base per il narghilé). Altre sezione altro collezionista: c’è quella su Stefano Bardini, ricchissima di tappeti e tessuti e una in omaggio, quella dedicata a Frederick Stibbert, con elmi, corazze, una testiera di cavallo del XVI secolo turca (Baraki è il nome in lingua originale), ma anche dei raffinati avori tra cui il Modello bidimensionale di uno dei Padiglioni della Corte dei Leoni dell’Alhambra di Granada del 1860. Infine un’ultima parte è dedicata a Giulio Franchetti e anche qui i frammenti di tessuti fanno la parte del leone. E sono tessuti dalle tinte forti: persiani, turchi, spagnoli e marocchini.