Vista dal cellulare
«Documento il rapporto malato e morboso con la tecnologia. E l’incapacità di vedere qualsiasi cosa»
Arte & turismo Selfie, pose ridicole, sguardi fissi sullo schermo: al museo di Taipei il racconto degli asiatici tra le piazze della città nella mostra di Giacomo Zaganelli
A 9.587 chilometri di distanza, Firenze sta raccontando se stessa attraverso il punto di vista dei telefonini cellulari di chi la visita. Se fosse un film horror, a malapena distingueremmo i turisti dagli zombie: fiumi di mani che imbracciano selfie-stick che inquadrano persone che guardano monumenti. Tutti uguali, tutti in serie. Siamo invece nel campo della video-arte, di fronte a una costruzione intitolata Façade: 440 x 440 x 510 centimetri di teli in pvc, ponteggio e cemento raffigurante il Battistero. Non siamo però in piazza San Giovanni ma al numero 39 di Chang’an West Road, Taipei, capitale e principale metropoli di Taiwan. Lì si trova il Moca, museo di arte contemporanea tra i più grandi e importanti di tutta l’Asia. Dove fino al 28 gennaio è aperta la mostra Superficially, la prima personale nella storia di Taiwan di un artista fiorentino: il trentacinquenne Giacomo Zaganelli, che vive a cavallo tra Firenze, Berlino e appunto Taiwan da diversi anni, e a Firenze è conosciuto per aver creato nel 2008 il prato Non a tutti piace l’erba in Largo Annigoni e poi La Mappa dell’Abbandono sugli immobili dismessi in Toscana dal 2010 che si trasformò in un’indagine conoscitiva del Senato. Entrambi progetti poi ospitati nello spazio pubblico virtuale del Moma di New York.
Alle pareti il grande racconto del turismo di massa dei nostri tempi prende vita. Scena uno: passa un minuto, due, poi un altro, un altro ancora, e il ragazzo asiatico al centro della ripresa non schioda mai gli occhi dal telefono cellulare. Rimane seduto lì, sul sedile di pietra di Palazzo Strozzi, con la faccia immersa nello schermo a cristalli liquidi del suo smartphone. Scena due: dall’individuo si passa alla massa in un gioco di riprese a tre canali separati, tre schermi che si «passano» il testimone visivo.
«La prima volta che arrivai qui a Taiwan, due anni fa, mi colpì subito il rapporto morboso che questo popolo ha con la tecnologia — racconta l’artista fiorentino — e ho voluto creare una connessione tra le due realtà e città in cui vivo: quella super moderna e tecnologica di Taipei e quella di Firenze che vive del suo passato, legate dal tema del turismo». Quando la direttrice del Moca gli ha chiesto di presentare una sua personale, Giacomo non ha avuto dubbi: realizzare questo ponte tra Firenze e Taipei dove i «mattoni» con cui il ponte era costruito fossero gli stessi turisti asiatici, o meglio i loro cellulari. Così ha deciso di «passare cinque settimane come un venditore di aste da selfie». Per poterli filmare da vicino.
Parte da un’inquadratura laterale del Duomo dove dalla fila — impossibile capire dove sei se non si notano i dettagli architettonici — emerge una ragazza che si posiziona centralmente rispetto alla telecamera, tira fiori il telefono e lo punta in cielo verso il campanile di Giotto, senza mai guardarlo. In Borgo degli Albizi un cinese scuote la testa perché non sa dove puntare il cellulare, lo muove da una parte all’altra, in cerca di qualcosa che non trova. Nel frattempo al Bigallo in un folto gruppo si fotografano a vicenda creando l’illusione di una danza rituale, si filmano l’un l’altro in pose ridicole. È quello che i giapponesi chiamano il «kawai». Da tradurre in «qualcosa di carino» che merita il loro tipico gesto delle due dita a V come orecchie di coniglio.
Zaganelli documenta il «morboso e malato rapporto con la tecnologia del turismo di massa». Le immagini si alternano a domande scritte in cinese e in inglese che interrogano i turisti: dove stai andando e cosa stai guardando? «La città non si vede mai: è la metafora — dice l’autore — dell’incapacità di vedere qualsiasi cosa se non attraverso il cellulare». Solo dettagli: un pezzo di porta del Battistero, la base del Biancone, una colonna del porticato degli Uffizi. Il finale è una folla di braccia che sorreggono iPad, telecamere, cellulari, in una danza di massa di schermi che fluttuano su un oceano di mani. E la memory card di un telefonino che scorre una dopo l’altra tutte insieme le foto scattate nella vacanza a Firenze. «Volevo documentare il processo del turismo di massa, osservando le persone, per mostrare come nessuno fosse realmente interessato a niente. È diventata una specie di indagine sociologica sulla rappresentazione del “sé”, del selfie come idea. Siamo tra il comico e il drammatico. Quale sia preponderante, decidetelo voi...».