L’EX RAGAZZO CHE CI RIPROVA
Dalle 8 alle 20 oggi si vota per le primarie del Pd: 899 i seggi allestiti dal partito in Toscana, con 5.000 volontari. Tre i candidati alla segreteria: Matteo Renzi, strafavorito, Andrea Orlando e Michele Emiliano. Nella notte lo spoglio e i risultati.
«Un milione di persone che vanno a votare rappresentano una forza straordinaria, strepitosa» ha scritto Matteo Renzi nella sua ultima e-news prima delle primarie di oggi. Ma anche lui sa che un milione di votanti, sempre che tanti siano quelli che andranno ai seggi del Pd, sono poco più di un terzo rispetto agli italiani che parteciparono alle primarie del 2013, incoronandolo leader. «Abbiamo fatto una campagna elettorale totalmente diversa, ricca di stimoli e di spunti» ha aggiunto l’ex premier. Ma anche lui sa che invece s’è visto tanto disinteresse, probabilmente accentuato dalla certezza del risultato, che vedrà di nuovo prevalere, e di parecchio, Renzi stesso (poco aiutato a risvegliare l’attenzione dell’opinione pubblica da due sfidanti che sembrano fatti apposta, con tutto il rispetto, per rendere testimonianza e passare all’archivio).
Finisce dunque una campagna fiacca, che ridarà al segretario uscente la guida del Pd, ma che rischia di cambiare poco o nulla nel panorama della politica italiana. Rivolgendosi ai suoi elettori, ieri Renzi li ha invitati a non farsi condizionare da chi sostiene che le primarie non servono più. Eppure neppure lui può ignorare che, con la vittoria del no nel referendum costituzionale e con la sentenza della Consulta sulla legge elettorale (il celebre Italicum) , il ritorno in grande stile del sistema proporzionale può svuotare di significato proprio quella che era stata la grande novità introdotta dal Pd, secondo il modello americano: il nuovo leader del partito, infatti, sarà anche il suo candidato premier, come da statuto, ma se il Pd dovrà mettersi d’accordo con altri partiti per formare un governo non è affatto detto che a Palazzo Chigi non ci sbarchi qualcun altro (o che non ci resti Paolo Gentiloni). Questi sono i frutti, piacciano o meno, dell’abbandono del sistema maggioritario (e vedremo nei prossimi mesi se i partiti riusciranno a partorire una legge che garantisca un minimo di governabilità, secondo gli auspici del Capo dello Stato)
Il quadro delle primarie è questo. E non è un quadro esaltante. Per Renzi, che sarà comunque il protagonista della prossima notte elettorale, potremmo dire che si è passati dalla poesia alla prosa.
In un batter d’occhio lui ha conquistato la fiducia degli italiani e poi, quasi altrettanto velocemente, ha bruciato molte di quelle attese. I motivi , più o meno, li conosciamo: le difficoltà superiori al previsto nel superare le farraginosità del sistema Italia; l’eccesso di promesse rispetto ai risultati; la debolezza della ripresa economica; la resistenza di gruppi e categorie che si sentivano minacciate dalla svolta; la lentezza di alcune riforme (come quella della pubblica amministrazione) e il fallimento di altre (scuola); la scarsa capacità di comunicare le realizzazioni più importanti del governo, che pur ci sono state. Ma quel che forse ha pesato di più è stato uno stile troppo arrembante e spregiudicato (come l’ex premer ha dimostrato nei giorni scorsi bruciando l’idea del sindaco di Firenze di costruire la nuova moschea nell’ex caserma Gonzaga), un inguaribile eccesso di battutismo, l’ostentazione di un ottimismo che è sembrato più un espediente propagandistico che un volano di fiducia, la solita resistenza a privilegiare il criterio della competenza rispetto a quello della fedeltà assoluta verso il capo nella selezione della squadra. Così nel Paese ha preso piede un crescente scetticismo, a volte un’ostilità vera e propria. Scrive Renzi nell’appello a partecipare alle primarie: «Chiediamo il voto perché abbiamo un progetto per l’Italia. Un progetto chiaro, serio, puntuale». Un progetto compiuto in grado di delineare una prospettiva certa di governo? Forse è l’annuncio di quello che lui riuscirà a offrire al Paese prima delle elezioni. Ma innanzitutto Renzi dovrebbe preoccuparsi di riuscire a trasmettere di nuovo l’entusiasmo, la voglia di provarci, che aveva suscitato trasversalmente, un po’ ovunque, quando era il «ragazzo di Rignano». Se quella era la sua vera identità non ha che da recuperarla. Per recuperare il consenso perduto. Il consenso di un leader che aveva promesso di rivoltare l’Italia come un calzino e che per questo ora non può poggiare solo sulla convinzione che in fondo è lui il meno peggio che il mercato politico ci offre. Serve qualcosa di più.