Renzi uno, Renzi due e il ballo delle correnti
Tanto per cambiare, si è aperto il «dibbattito». Le riflessioni sono sempre utili. Ma questo «dibbattito» rischia di moltiplicare i danni di elezioni amministrative che per il Partito democratico — per usare un caritatevole eufemismo — non sono state un trionfo. Un po’ perché il tafazzismo è di casa al Nazareno e dintorni. E un po’ perché la variegata sinistra del partito procede come al solito in ordine sparso. Da chi non è riuscito sovente a prevedere il passato, non c’è da aspettarsi nulla di buono. Dispensa, è vero, ricette più o meno salvifiche di continuo. Ma se le terapie sono quelle fin qui enunciate, c’è poco da stare allegri. Più che medici, rappresentano la malattia. Per cominciare, tot capita, tot sententiae. Roberto Speranza dice che il doppio incarico di Matteo Renzi, segretario del partito e presidente del Consiglio, non va. E non si fa pregare per spiegare il perché. È convinto che «non funziona: non fa bene al partito e non lo aiuta». Davide Zoggia, a sua volta, è ancora più esplicito. Afferma — papale papale — che Renzi deve lasciare la segreteria. Gianni Cuperlo la pensa in maniera diversa: per lui il problema non è tanto quello del doppio incarico. E Arturo Parisi, come il notaio di Arbore, conferma. Ma non la vede così Massimo D’Alema. Da un lato sostiene che Renzi deve sloggiare dalla segreteria perché «serve una figura che si occupi del Pd a tempo pieno». Diciamo. Dall’altro, già che c’è, auspica anche una direzione collegiale. A stretto giro di posta il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che s’è candidato da gran tempo alla segreteria, condivide in sostanza l’idea di D’Alema. Bontà sua, non è contrario al doppio incarico. Ma propone un ufficio politico di trenta persone, rappresentanti di tutte le «anime» del partito, che diventi il luogo della decisione politica collettiva. Ora, è lodevole che la sinistra del Pd auspichi il cambiamento. Ma si può cambiare per andare avanti o per tornare indietro. Ed è per l’appunto questo secondo corno del dilemma che piace a lorsignori. Ha ragione Giorgio Tonini: nelle democrazie parlamentari europee governa il leader del principale partito, e questo dà stabilità alle istituzioni e coerenza di indirizzo al governo. D’altra parte non è un caso se lo statuto del Pd contempla il doppio incarico. È la conseguenza di quella vocazione maggioritaria teorizzata da Walter Veltroni. Purtroppo rimase allora appesa a mezz’aria come un caciocavallo — per dirla con Benedetto Croce — a causa del tic lessicale dell’ex segretario del partito. Per via di quel «ma anche», fu imbarcato Tonino Di Pietro. E tutto finì lì. Non si può tornare ai tempi della Prima Repubblica, quando la Dc era entusiasta della democrazia acefala e demonizzava il doppio ruolo. Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita ci provarono. Ma ballarono una sola estate. D’Alema e Rossi vorrebbero annegare Renzi nella collegialità. Un ostaggio delle correnti. Torna alla mente una battuta di Giuseppe Maranini, nel dopoguerra preside per molti anni della Facoltà fiorentina di Scienze politiche «Cesare Alfieri». A chi gli domandava quale fosse a suo avviso la migliore forma di governo, rispondeva: «La tirannide». Ma aggiungeva, dopo una studiata pausa: «Temperata dal tirannicidio». La correntocrazia, al pari della partitocrazia, sono tirannidi senza volto. Perché se tutti sono responsabili, non lo è più nessuno.
Il doppio incarico Speranza non lo vuole, Rossi è per l’ufficio politico. La sinistra Pd auspica il cambiamento, ma si può cambiare per andare avanti o indietro