Aziza, la foto in ateneo e l’incertezza di andare
Lavori di casa: cucinare, lavare i piatti, piegare i panni, pulire il pavimento. Aspettare. Guardare fuori dalla finestra, temere di vedere in lontananza un fuoristrada con a bordo uomini armati, non so nemmeno se chiamarli soldati. Tutto per non pensare, però poi inevitabilmente vado a guardare il mio telefonino e mi si stringe il cuore trovando una foto di Aziza che oggi è tornata all’università.
La foto riprende la sua classe, un ambiente rettangolare con la lavagna, una finestra, i banchi ordinati e lei, lei da sola seduta su un banco a destra di una tenda che divide la classe a metà. È una foto silenziosa, sembra quasi in bianco e nero. Non rappresenta una classe attiva e dinamica, sembra aleggi la paura in un vuoto per nulla rassicurante. E anche lei, vestita con una tunica nera fino ai piedi in una giornata calda, con un velo che le circonda l’ovale del viso, non sorride, non mi manda una sensazione di gioia, non sembra lei, ma ha sempre i suoi occhi vispi.
Eppure dovremmo essere felici, FELICI: l’università ha riaperto. Agli occhi del mondo i talebani stanno mantenendo le promesse fatte, la loro immagine più sobria, ragionevole e tollerante. Eppure noi non riusciamo a crederci. Forse perché sappiamo che continuano a sedare le dimostrazioni e a disperdere con la violenza e le armi i gruppi di donne coraggiose che continuano a manifestare nelle città.
Oggi erano presenti cinque ragazze e sei ragazzi nella classe di Aziza dove di solito sono almeno una trentina di studenti, mi racconta che hanno fatto lezione come se nulla fosse, l’intervallo di tre settimane è stato completamente rimosso. Il professore ha ripreso esattamente da dove si erano interrotti,
«Diritti Civili» era il titolo della lezione. Le ho chiesto come si fosse recata all’università dalla casa dei suoi cugini dove adesso vive, e mi ha detto che ha preso il bus, con il velo e la mascherina per il covid, con quell’abito lungo nero. Non ha avuto problemi dice, per strada qualche soldato, traffico usuale. Tutto apparentemente quasi normale, se non per l’aria pregna di paura. Invisibile ma tangibile.
La stessa che ho io. Cosa devo fare? Posso prendere un autobus dal mio paese per andare a Kabul? Sei ore di viaggio attraverso le campagne, chi incontrerei? Posti di blocco? Possibili attacchi senza preavviso e senza motivo? E poi una volta a Kabul dovrei andare ospite da amici di famiglia, che già vivono in difficoltà, come posso sentirmi ospite e un’altra bocca da sfamare, quella di una studentessa? Ho pudore a parlarne con i miei genitori, loro sono sempre stati comprensivi con me, mi hanno dato fiducia, hanno assecondato le mie ambizioni. In questi giorni li sento bisbigliare quando credono che io non li senta, so che si sentono responsabili per la mia sicurezza e che hanno ancora più timori di quanti non ne abbia io. Non ho coraggio di chiedere loro di lasciarmi andare, perché io, in verità, non ho ancora il coraggio di andare.