IL VUOTO VISTO DALLA FINESTRA
In Ruga Bella oggi non c’è nessuno. Da tre settimane, quando vado alla finestra, vedo sempre meno gente; all’inizio erano tantissimi, poi pochi, poi pochissimi, come capita alla fine di una recita a teatro. Oggi, finalmente, tristemente, c’è il vuoto. Aspetto qualche minuto prima che passi una signora macilenta, senza eleganza, di quelle eroiche che superano i ponti con la feroce determinazione di un’alpinista sull’Everest. Mi viene da gridarle di stare in casa, ma poi scorgo che impugna una borsa della Coop sopra il bastone; forse vive sola, non ha alternative al rischio in questa vecchia città. Il portafoglio lo tiene stretto, però, perché non glielo rubi qualche borseggiatore invisibile. Incrocia una coetanea che scende dal ponte.
Ha la mascherina, incede spavalda, la vecchia con la borsa indietreggia, come se l’altra brandisse Excalibur contro di lei. Dopo un po’ è la volta di un padre, che parla al telefono con un bambino; sta tornando a casa, rapido, ma ha la faccia di chi vuol star lontano da sé, dai pensieri improvvisi che in questi giorni ti allagano. Di solito, molti passano di qui; dalle finestre è un vociare, insieme insistente e inesistente, molti pronunciano ad alta voce «Ruga Bella», perché il nome stupisce. Oggi, invece, in campo Nazario Sauro c’è solo un gabbiano, lo sguardo stupido, l’incedere sospettoso come temesse una trappola. Venezia vuota l’abbiamo già vista. È vuota quando c’è l’acqua alta, che spodesta gli uomini. È vuota di notte, quando scompare la sua inconsistente vegetazione di turisti e pendolari, quando si rintana la sua scarsa popolazione. Passa, velocissima, da piena a vuota. È bella, da vuota, e certe volte la cerchi, così, ti pare più tua. La gioia dell’architettura ti consola. La festa della natura ti travolge. E, un poco, ti spaventa. Perché pare prescindere da te. Pare esistere senza di te. Senza la desolazione magica di una Stonehenge, senza l’assenza ovattata di una landa naturale, la fragilità di Venezia suggerisce pur sempre il senso della fine, dell’eccezione umana. È la cifra forse più struggente della sua bellezza, come ogni amore che non è mai certo. E questo confermano le immagini della mia città che girano sul telefonino; il vuoto di ogni luogo, la tristezza dolorosa, il silenzio che si intuisce, e poi quella strana lezione che danno i cigni che nuotano nei canali, le garzette che nidificano nei pontili, deposte le uova tra le corde d’attracco. Non siamo indispensabili. O forse no. Questa bellezza l’abbiamo fatta noi, è tutta nostra. Lotteremo per difenderla. Non c’è città senza uomini che la abitano. Sarà da ricordarcelo, quando tutto questo sarà finito, che cosa vuol dire, essere una città, essere una città da questa parte d’Occidente; che privilegio sia, poter passeggiare in sicurezza a ogni ora del giorno della notte, potersi incontrare quando si vuole, poter stare vicino ai propri cari, potersi comprare le cose. Che responsabilità sia, che le città rimangano vive, non solo luoghi dove esonda uno sciame di gente appiccicata e distante. Che Venezia, in particolare, ritrovi anche qualcosa di diverso dal suo passato recente turbo-turistico, che pure oggi fa comunque nostalgia. Oggi, è vero, abitiamo anche un’altra città, dove parliamo, compriamo, vediamo persone; il nostro telefonino, che per fortuna c’è. È, in fondo, l’epoca migliore per vivere questo disastro, per farlo finire presto. Ma non basta quello. È che in fondo, a ben pensare, le nostre città non sono vuote. Venezia non è vuota. Siamo ancora tutti qui; preoccupati, asserragliati, ironici, vicini a chi amiamo come mai. Le nostre città, infatti, non sono solo le migliori piattaforme dei nostri commerci, dei nostri.