Fine vita, quelli che non mollano
Le storie di chi non si arrende alla malattia. Il Patriarca: «La sfida è rendere vivibile il dolore»
Dopo la scelta di Gianni Trez, il pensionato veneziano andato a morire nella clinica svizzera, nelle ore successive a dj Fabo, scende in campo la Chiesa del Nordest. Il Patriarca Francesco Moraglia: «Rendere vivibile e dignitosa la vita nelle fasi di maggiore sofferenza è la grande sfida di fronte alla quale tutti siamo doverosamente impegnati». Le associazioni raccontano le storie di chi non molla e non si arrende alla malattia.
A ventiquattr’ore ore dal suicidio assistito del pensionato veneziano Gianni Trez, malato di tumore che ha voluto chiudere gli occhi nella stessa clinica svizzera scelta il giorno prima da dj Fabo per l’addio a un’esistenza di dolore, il Patriarca di Venezia interviene nel dibattito sul fine vita. «Di fronte a chi ritiene di non aver più futuro e si dibatte in gravissime sofferenze fisiche, psicologiche e spirituali, c’è un profondo rispetto, grande vicinanza e solidarietà — dice Francesco Moraglia —. Chi segue questi malati e i loro familiari constata come vi possano essere risposte differenti se non addirittura opposte. Rendere vivibile e dignitosa la vita umana anche in questi frangenti e nelle fasi di maggiore sofferenza è la grande sfida di fronte alla quale tutti siamo doverosamente e appassionatamente impegnati. E a cui sono chiamate a rispondere una scienza medica e una società che pongano l’uomo e la sua vita al centro di tutto, senza mai darsi per vinte. Ritengo sia questa la sfida di cui debba farsi carico una collettività che si vuole prender cura dell’uomo, mai considerato, come dice Papa Francesco, prodotto di scarto. La vita — nota il Patriarca — è la più rilevante delle soglie che identificano l’uomo. In alcun modo poi possiamo strumentalizzare il dolore e la disperazione di queste persone e dei familiari».
Se infatti una parte dell’opinione pubblica preme perché si arrivi alla legge sul testamento biologico — sulla quale i parlamentari dovrebbero tornare a discutere nei prossimi giorni —, un’altra resta saldamente ancorata alla difesa del «continuare a esistere nonostante tutto». «La vita è il valore più importante e il compito di una società civile è difenderla e assistere adeguatamente chi accusa gravi problemi di salute — afferma il dottor Franco Balzaretti, vicepresidente dell’Associazione medici cattolici italiani per il Nord Italia —. L’eutanasia è la strada più breve, più comoda e ahimè, la meno costosa per il sistema sanitario, ma è la peggiore sconfitta per il medico e la società stessa. Ogni persona è una ricchezza, un’unicità irripetibile, nessuno ha diritto di sopprimere la vita altrui nè la propria, perché bene comune e inviolabile». Concetti che per un medico valgono doppio. «Con il giuramento di Ippocrate ci facciamo carico di difendere la vita, non di sopprimerla — aggiunge Balzaretti — non possiamo andare incontro a una deriva etica nè assecondare atteggiamenti spesso frutto di mancata conoscenza. Va tracciata una netta distinzione tra l’accanimento terapeutico, al quale anch’io sono contrario se serve solo a prolungare di qualche ora le sofferenze di un malato senza speranza, e l’abbandono terapeutico. Come l’interruzione dell’idratazione: significa condannare il paziente alla morte di sete, la più brutta insieme a quella per soffocamento». A preoccupare i medici cattolici è anche il fatto che il 40% delle diagnosi di stati vegetativi irreversibili sono sbagliate. E quindi i pazienti sono potenzialmente recuperabili. «E noi ne abbiamo seguiti più di uno — assicura Balzaretti — bisogna stare attenti prima di arrivare a una legge partendo da casi limite che forse non lo sono».
Molti pazienti e familiari la pensano allo stesso modo. «In vent’anni ho assistito tanti malati e lo faccio ancora, nonostante anch’io oggi stia male — rivela Gianni Tinello, vicepresidente della Federazione veneta Alzheimer — e non ho mai consigliato a nessuno la dolce morte, nemmeno nella fase terminale. Nemmeno quando, per sei anni, ho avuto mia madre nelle stesse condizioni. Ci sono periodi bui e di depressione, ma la vita va vissuta fino all’ultimo anelito». «La vita è una sola e lo dice uno che è in sedia a rotelle — concorda Nicola Carabba, presidente di Aspea, associazione che promuove lo sport per disabili —. E’ dura trovarle un senso in certi momenti ma finché c’è, va onorata. Conosco tetraplegici che fanno sport muovendo la palla con una bacchetta posizionata in testa, sordociechi che lottano per andare avanti: è anche per rispetto loro che rifiuto l’atto estremo ed egoista». «Ma perchè c’è la coda a morire? — si chiede Maddalena Borigo Daniel, presidente storica di Anffas Padova — Io ho 78 anni, assisto mio figlio disabile, oggi 50enne, da quando è nato, e nonostante la fatica ogni giorno apro gli occhi e dico: meno male che anche oggi è qui e posso stargli dietro».