L’UTILITÀ DEI CORPI INTERMEDI
C’erano, una volta, e contavano, eccome se contavano, le rappresentanze. C’erano, per dirla in termini più forbiti e solenni, le formazioni sociali di cui parla nientemeno che il secondo articolo della nostra Costituzione. Corpi intermedi che, nel pensiero personalista dei costituenti, avrebbero dovuto appunto mettersi in mezzo, mediando, tra il singolo e lo Stato favorendo così la partecipazione e combattendo l’individualismo.
C’erano perché da qualche anno le rappresentanze sono uscite decisamente di moda: accusate di inefficienza, di corporativismo, di mediazioni inconcludenti. Fatte fuori dal decisionismo leaderistico della politica, dalla globalizzazione dell’economia, dall’assenza di grandi conflitti sociali e dall’individualismo della cultura odierna.
Insomma, si dice che siamo in tempi di disintermediazione. Nella società sempre più liquida, il verticale ha la meglio sull’orizzontale. E poco conta che, soprattutto in Veneto, le rappresentanze con il loro tessuto associazionistico molto diffuso (sindacale, imprenditoriale, religioso, sociale, culturale) abbiano costituito un segmento importante del Dna sociale ed un tratto costitutivo dello sviluppo locale.
Fine delle rappresentanze allora? No, tutt’altro, fino a quando ci saranno processi di sviluppo e quindi di squilibrio sociale, con conseguenti tensioni, litigiosità, istanze da convogliare in mobilitazioni collettive e da governare.
Siamo infatti una società in cui aumentano le disuguaglianze sociali ed in cui quindi fanno grumo risentimenti che non possono essere lasciati rancorosamente a loro stessi, ma devono essere collettivamente rappresentati e “sfogati”. Siamo anche una società che sta integrando milioni di stranieri, tutti portatori di interessi forti (casa, lavoro, scuola, lingua, ecc.) e tutti alle prese con nuove identità collettive; interessi e identità che qualcuno dovrà pure rappresentare. E siamo una società che tende a cumulare un malcontento e talvolta un livore che va in qualche modo raccolto e gestito. Senza coltivare le emozioni della piazza o le depressioni familiari. Di sicuro occorre “Rigenerare la rappresentanza”, come scrivono in un loro agile volume Casteller e Rigobello, due uomini che provengono proprio dall’associazionismo artigiano. Proprio quell’associazionismo oggi in particolare difficoltà perché alle prese con perdite di iscritti, difficoltà di fornire servizi alle aziende, fatica nel raccogliere e nel portare avanti gli interessi degli associati. Il tutto in un contesto economico a dir poco – ma molto poco – incerto e nebuloso. Eppure da qui si deve partire: perché solo le associazioni, le rappresentanze, sanno intrecciare le esigenze dei loro iscritti e le necessità del loro territorio con le grandi trasformazioni che altrimenti rischiano di correre alte e veloci sopra le nostre teste: ma senza coinvolgerci o interpellarci.