I primi 50 anni dello Zar Danilovic
Leggenda della Virtus, ha caratterizzato l’epoca d’oro di Basket City: Danilovic compie mezzo secolo, dopo di lui Bologna non è stata più la stessa
Il mondo di Predrag Danilovic a Bologna era un ampio quadrilatero che prendeva una fetta di centro storico, quello più glamour, dal Rosa Rose di via Clavature fino al PalaDozza, la casa del basket cittadino dove la leggenda del serbo ha cominciato a generarsi. Compie oggi cinquant’anni quella «rondine coi jeans», come la battezzò Lucio Dalla, poeta della città e della pallacanestro, che lo vide attavolarsi con una giacca di pelle nera da Napoleone per una pizza e ne restò folgorato. Mezzo secolo di Danilovic, un numero tondo come quello che sancì il suo addio al basket, sorprendente quanto struggente nel 2000: «Ragazzi, non ce la faccio più». Un sibilo, e si chiuse un’epoca. Danilovic ha segnato una città, dopo di lui Bologna non è stata più la stessa. La sua ferocia ha plasmato una generazione di tifosi e di giocatori bolognesi, dal campetto alla prima divisione, ha ispirato anche qualcuno che poi alla serie A c’è arrivato. Erano gli anni Novanta del bengodi, una città in rampa di lancio, vincente, ricca, al centro del dibattito politico, in cerca di una dimensione superiore giustificata dalla grandeur che regnava beata. L’arrivo del serbo fu dirompente: riportò lo scudetto alla Virtus, spinse la Fortitudo di Giorgio Seragnoli a spendere per raggiungere il primato cittadino — che significava quindi italiano ed europeo — interpretò perfettamente il ruolo iconico di un leader silenzioso, tagliente, tenebroso. Era tutto quello che Bologna voleva essere: sempre vincente, sempre adeguato, da imitare, dotato di uno sconvolgente carisma. Lo dice anche Alfredo Cazzola, il presidente che lo portò a Bologna: «Il motivo per cui gli sono così legato è perché esprimeva sul campo quello che io cercavo di esprimere nel mondo degli affari, mi identificavo».
Lo facevano in tanti. Danilovic veniva da Sarajevo dov’era nato il 26 febbraio 1970, aveva passato già due vite prima di arrivare in Italia. La famiglia serba, gli allenamenti all’alba prima della scuola, il passaggio dal Bosna al Partizan Belgrado contro il parere della mamma, la sospensione della federazione che lo costrinse per un anno ad allenarsi senza giocare. Poi la nazionale, alla quale s’aggregò giovanissimo (a 19 anni era nel gruppo dei plavi che vinsero l’Europeo di Zagabria). Poi la guerra. Il carattere da duro si forgia anche così. A Bologna cercava una casa e la Virtus divenne un impero. La scelse anche perché c’era Roberto Brunamonti, capitano bianconero, incontrato chissà dove e visto di sfuggita in qualche differita del campionato italiano trasmessa in Jugoslavia. «Volevo giocare con lui» ha sempre detto. «La nostra avventura — racconta oggi Roberto — è andata oltre le mie più rosee aspettative. Non è stato solo un compagno di squadra straordinario, e questo potevo aspettarmelo, ma ho incontrato un amico e una persona cara a cui voglio bene. Gli faccio tantissimi auguri, l’ho conosciuto che era poco più di un ragazzetto e adesso è un uomo che ha figli, famiglia, presidente della federazione serba, che ha continuato ad avere successo in quello che fa».
Quando arrivò a Bologna era due metri e magro. Ed era campione d’Europa in carica, un’Eurolega vinta dal canestro allo scadere di Sasha Djordjevic contro il Badalona. Quel Partizan aveva eliminato la Virtus in un playoff fatale. Danilovic, a Bologna, dominò. Lo volevano tutti, Cazzola di più. «Posso ricordare ancora con grande gioia il giorno che a casa mia col suo agente, Luciano Capicchioni, firmammo il contratto. Alla fine gli dissi: “Vieni che andiamo a fare due passi”. Uscimmo attorno a casa mia e gli spiegai: “Da questo momento sei diventato un giovane uomo ricco, quindi cerca di stare molto attento, da questo momento avrai molti amici e forse non tutti lo saranno, cerca non spendere i soldi in maniera sbagliata e se hai dubbi o bisogno di un suggerimento rivolgiti a me”. Questa chiacchierata in qualche modo lo colpì, mi ascoltò molto serio e concentrato ed è nato così il nostro connubio».
Sasha è tornato a Bologna l’ultima volta tre settimane fa, da presidente della Federbasket serba, per la partita di Eurocup tra Segafredo e Partizan. È tutto diverso, adesso. Il palasport che lui espugnò nel ‘92 è pitturato di rosso, mentre allora aveva i colori del Madison Square Garden. Gli adolescenti che andavano in Galleria Cavour, al numero 2, a controllare che abitasse ancora là — sul campanello c’erano solo le iniziali: P. D. — hanno la pancia, i capelli brizzolati e i figli. Come lui. La sua stella più dotata, Olga, nata dopo il ritiro dal basket nel 2001, è una campionessa di tennis.
«Sì, ho avuto il piacere di vederlo a pranzo — racconta Cazzola — perché in quei giorni mi ha inviato a una tavolata divertente da Rodrigo.
Aveva portato con sé una quindicina di amici. Ho avuto tanti grandi giocatori ma Sasha è il campione a cui sono più legato, è nato fra noi da subito una sorta di intesa e anche un grande rispetto reciproco. Ognuno ha fatto il suo ruolo, credo che per caratteri come i nostri sono valori che rimangono impressi per una vita».
Divisivo e feroce, la sua grandezza è stata la capacità di vincere e di non deludere mai compagni di squadra disposti a tutto per stare in campo come voleva lui. Farlo significava alzare i trofei al cielo. Oggi ancora ci si chiede se sia stato il più forte giocatore della storia della Virtus, e tanti dicono «no» ma nessuno si priverebbe mai di Danilovic in un quintetto ideale. Perché vinceva. La partita è ancora aperta: se non è stato lui il più grande, chi? In sei stagioni: 22,5 punti di media, 63,3% da due, 40,7% da tre, 82% ai liberi, 22,7 di valutazione, 4 scudetti, un’Eurolega (la prima nella storia del club). Il tutto toccando la quantità minima di palloni necessa ria per incidere sulla partita. È stata quindi questa la sua dote migliore? Dominare senza mangiarsi la palla, dando alla squadra l’impressione di esserne soltanto un ingranaggio, scegliendo il momento in cui azzannare? A Bologna si poteva essere pro Danilovic o contro Danilovic. Indifferenti, mai. Quella dell’epoca non era «solo» pallacanestro. Si è detto molto anche dei suoi duelli memorabili con Carlton Myers, in campo e fuori. Due che parevano volersi scannare, e poi sono diventati amici. Chi è cresciuto in quegli anni, ne è rimasto segnato per sempre. Oggi lo Zar spegne cinquanta candeline, vive a Belgrado e forse non se lo ricorda più. Ma Bologna, allora, era sua.
Dopo la firma del contratto facemmo due passi e gli dissi «Sasha, ora sei un giovane ricco, avrai tanta gente attorno: se vuoi un consiglio vieni da me». Il nostro legame nacque quel giorno Alfredo Cazzola, ex presidente Virtus