La nobiltà della parola contro l’odio verbale La lezione di Ravasi
Il cardinale Gianfranco Ravasi è stato laureato ad honorem ieri nell’Aula Magna di Santa Lucia in Filologia, letteratura e tradizione classica. Il Monsignore ha parlato (a braccio) su «parola» e «libri», spaziando con la competenza che gli viene unanimamente riconosciuta fra letteratura, poesia e religioni. E lanciando, dopo le celebrazioni, un monito a Salvini: «I politici non dimentichino i valori umani».
Ammettiamolo. Chi ha seguito con attenzione la lectio magistralis — fatta a braccio senza leggere come tutti coloro che lo hanno introdotto — di Monsignor Gianfranco Ravasi ieri, in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Filologia, Letteratura e Tradizione classica che la nostra Università gli ha «dedicato», è rimasto, come chi scrive, quanto meno folgorato. E per l’ennesima volta. Mica la prima. Si esce (metaforicamente) dall’Aula Magna di Santa Lucia, luogo della cultura alta per eccellenza, con la coda fra le gambe, dopo averlo sentito parlare — lo ripeto — a braccio, senza un minimo di esitazione, mai, spaziando in un universo aperto, che sfiora e attira a sé, con un allucinante rigore, gli estremi. Abbandona i sentieri affidabili, lastricati di certezze, Ravasi, per avventurarsi con inattaccabile sicurezza in campi ignoti a molti. La mattinata di ieri, un piacevole sabato caldo di giugno, forse non era climaticamente perfetta per un conferimento così importante: l’Aula Magna non era piena come avrebbe dovuto invece essere, vista l’importanza del laureato. Nelle prime file Fabio Roversi Monaco, indimenticato rettore, Romano Prodi, il sindaco Virginio Merola, Isabella Seragnoli, l’assessore Mezzetti. Il Collegium Musicum accompagna la cerimonia con note corali. Poi c’è lui. Il Monsignore. Che sorride e parla da grande saggio dopo i vari interventi «wikipedistici» di chi lo introduce, il rettore Ubertini, Francesco Citti e Ivano Dionigi (ma in fondo è la prassi per le lauree ad honorem, chi introduce, chi spiega, chi fa la laudatio, sono tutti — diciamo — costretti a «leggere» un loro intervento scolastico). Il suo intervento invece, Ravasi lo ha invertito all’ultimo momento, dopo che «l’amico Dionigi ha letto il suo testo». E che problema c’è per uno come Ravasi, che il latinista ha giustamente definito: «Il chiaro esempio che non siamo tutti uguali»? Parte dalla fine e con la lucidità dell’illuminato si dedica, prima alla «parola» e poi al «libro». «L’evento archetipico cosmico è affidato a una parola» (cito a memoria, perché l’ufficio stampa, assente, non ha fornito successivamente alcun testo). «In principio era la parola». La parola è creatrice. Dalla Bibbia Ravasi vola sull’amato Faust di Goethe. «L’autore tenta di tradurre das Wort, la parola, ma non basta. Poi der Sinn, il significato. E poi ancora die Kraft, la forza, die Tat, l’atto». E aggiunge: «Per definire l’atto e la parola, in ebraico si usa un unico sostantivo». Sono tantissime, e ci perdoni il lettore se non riusciamo a riportarle tutte, le ramificazioni del pensiero di Ravasi, che arrivano alla poesia di Borges e a quelle «dieci parole che scendono dall’alto (il decalogo, ndr)», alle quali guarda il regista polacco Krzysztof Kieslowski da agnostico, considerandole però sempre ancora «stelle nel cielo della morale». Ravasi poi sceglie l’immagine di Cristo «come Orfeo», dalle Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro di Roma. «Incrocio perfetto tra classicità e cristianità delle origini. Cristo è logos, parola». E poi si chiede «come possiamo comprendere Agostino senza Platone?». Nel senso che la parola può stare dentro due estremi, «che in una sua sontuosità cerca di esprimere in una torsione l’infinito». La parola porta «dal contingente all’assoluto, dallo spaziale all’infinito, dall’umano al divino. Non si accontenta di rappresentare il visibile. Per questo Cristo parla per parabole». Ma lui, Monsignor Ravasi, alla fine, appoggiato sul tavolo il tocco della sua nuova (ennesima laurea) non parla per parabole. Ma attacca, senza nemmeno troppi giri di parole, evocando una necessaria «ecologia linguistica», i nuovi politici, Salvini in primis, e le sue dichiarazioni sulle Ong. «Non dimentichino mai la dignità e i grandi valori umani». Sante parole.
” L’ammonimento I politici non dimentichino mai la dignità e i grandi valori umani