Luigi, lo scugnizzo machiavellico
Ho visto Luigi Di Maio. Vorrei dire che mi è apparso, da Floris, Di martedì. Non che non l'avessi visto prima, anzi, dalla televisione sono mesi che si affaccia da quando è stato investito del ruolo di pubblico rappresentante del M5d, nonché candidato premier. Solo che l'altra sera è sceso in campo, come si disse una volta di Silvio Berlusconi, con l'alone che lo circondava di chi si pare predestinato e scende tra gli umani per far sapere quali sono le intenzioni, i programmi e gli obiettivi. Di un'immagine sto parlando e dunque delle qualità che la rendono tale e per le quali si impone all'attenzione, all'affetto o, di contro, alla repulsione di chi la politica la consuma in tv. Al centro dello studio, davanti all'ospite che cercava di maneggiarlo e di mettergli davanti qualche inciampo dialettico, si è assiso con il piglio di chi sa che una strada lo attende ed è quella che lo condurrà là dove il popolo degli elettori lo ha inviato.
Una creatura sconosciuta al panorama politico nazionale, direi al bestiario se non fosse che qualcuno digiuno del Medioevo potrebbe prenderlo per un insulto. Un infante - anche nel senso regale che in Spagna si dà al termine - con un sorriso stabilmente largo, qualunque fosse la curva del discorso, mai un'esitazione, un'incertezza, anzi la sicurezza di chi ha lo spartito davanti e lo conosce a menadito, l'impressione del gatto sornione, gentile, imperturbabile che aspetta solo di catturare il topo, perché prima o poi lo catturerà, perché l'occasione - lo ha ripetuto a loop - è di quelle che non capiteranno più e il popolo si aspetta che venga eseguito il mandato di fare il repulisti, togliere i vitalizi, le incrostazioni della vecchia politica e tutti gli inciuci perpetrati negli anni dalla consorteria dei mascalzoni (questo è il discrimine, la linea di confine).
Luigi è il nuovo, nuovo come la sua giovinezza e i suoi occhi puntuti da scugnizzo napoletano, nuovo e tuttavia vissuto, nuovo e rassicurante, come se quel completo celeste da cui non si separa quasi mai nascondesse tutti gli artifizi, le ficelles du métier, alla faccia dell'ingenuità e dell'apparenza immediatamente naif, che sono e saranno indispensabili per far saltare il portone del Palazzo.
Gentile e crudele è Luigi, indisponibile a cedere di un millimetro sul programma, determinato e feroce nella determinazione, con la postura di chi si mette al centro, nel senso che è disponibile a guardare da qualunque parte, a destra o a sinistra, fate voi che ancora usate queste carte a cui non crede più nessuno, purché saltino sul suo carro e ne condividano la rotta (poi, magari, ci mettiamo d'accordo, ma non lo vengo a raccontare a te, caro Floiris). Vi abbiamo sbertucciato fino a ieri, non vi preoccupate se salirete con noi sarete benedetti dalla virtù taumaturgica del nuovo, del pulito che lava più bianco che più bianco non si può.
Luigi ha le carte per piacere a tanti, si sente investito da un vento che lo porta ed è quello che tanti vogliono sentir soffiare, e si presenta - mutatis mutandis - come il Napolene a cavallo che secondo Hegel, filosofo e annusatore dell'aria, incarnava lo spirito del tempo e della storia. E lo fa con l'aria sbarazzina e al tempo stesso di chi non si farà fregare, suadente e machiavellico, e chi se ne frega del congiuntivo, tanto si incazzano soltanto i soloni veterotestamentari della sinistra abituata a bacchettare e a distribuire patenti.
Luigi mi è apparso, ha addomesticato Floris e noi tutti, con la certezza che l'agenda è dalla sua parte e che il suo smalto è di quelli che durano nel tempo, lui non è un prodotto scaduto, bollito, consumato dagli anni e - per ora - dall'arroganza. Mi ha ricordato, devo rifletterci, Mike Bongiorno, di cui Umberto Eco descrisse la fenomenologia cercando di capire come un signore unonessuno-e-centomila potersse raccogliere decine di milioni di spettatori. Era il tempo di Lascia o raddoppia e tutto lascia pensare - e lui lo pensa - che Luigi Di Maio va a raddoppiare.