MIHA, DURO COME LA VITA
Ha conosciuto la guerra, poi in Italia ha imparato a piangere e persino ad accettare gli scherzi dei suoi giocatori Da un Paese in disfacimento ai vertici d’Europa, sulla scia delle sue punizioni da 160 km/h Eriksson gli cambiò ruolo e lui anche da tecnic
Non era la faccia brutta e cattiva del calcio. Queste baggianate lasciamole ai maestri della vita altrui. Sinisa Mihajlovic del calcio era la faccia seria e per questo rara. Forse anche sporca, perché no, convinto com’è sempre stato che per rimanere presenti a ciò che si fa bisogna portarsi dietro tutto il corpo e tutta l’anima, in ogni situazione. Anche in quelle evidentemente sbagliate. Anche quando insultò Vieira tirando in ballo il colore della pelle, quando camminò sulla faccia di Mutu e lanciò una bottiglia contro un delegato dell’Uefa. Tutte cose atrocemente sbagliate vent’anni fa e addirittura inaccettabili oggi che siamo cresciuti. Si comportava così, pagava e poi sosteneva di non essere pentito, bensì addolorato di non essere stato sé stesso in quelle circostanze.
Siamo cresciuti tutti, anche lui. L’ho capito quando ho imparato a piangere, diceva. Da calciatore scalciava, da allenatore i suoi allievi lo guardavano spauriti. Per un po’. Poi comprendevano che sotto la corazza di freddo e urla c’era ironia, c’era sensibilità e c’era conoscenza. Allora cominciavano persino a fargli scherzi telefonici, che lui spesso coglieva al volo e annientava sul nascere.
Chi voleva offenderlo lo chiamava zingaro, e Mihajlovic si offendeva perché capiva l’intenzione. Non fosse per quella, si sarebbe limitato ad annuire. Metà croato metà serbo, figlio di un’operaia e di un camionista, l’apocalisse jugoslava gli esplose tra le mani. «Vidi i miei parenti che si ammazzavano tra loro». Per sua fortuna era già calciatore all’epoca, anche se aveva faticato a diventarlo. Quando era bambino i genitori uscivano di casa alle sei della mattina e un giorno il padre gli aveva regalato un pallone per non farlo annoiare. Giocava da solo, stando attento a non far uscire il cuoio dall’erba in modo da non rovinarlo. Quando riuscì ad avere un pallone di scorta, si mise a calciare contro la serranda di un vicino di casa. Che a buon diritto avrebbe potuto reagire male e invece profetizzò al ragazzino un futuro da professionista. Ma questa è aneddotica. A lui non dispiacerebbe, visto che amava raccontare queste cose e le ha ribadite in un libro. Il Mihajlovic dalla faccia seria e sporca e dal sinistro a tifone dei nostri ricordi cresce nella squadra di Borovo che adesso è Croazia, poi passa al Vojvodina, quindi alla Stella Rossa, che pochi anni prima lo aveva bocciato e con lui vince una Coppa dei Campioni. Non siamo ancora nell’epoca dello scouting semiautomatico, però tra successi internazionali e puni
La Stella Rossa lo aveva bocciato ma con il suo arrivo scalò il continente
zioni violente gira la voce di questo ragazzo poco più che ventenne, centrocampista feroce. L’università di Belgrado gli misura il tiro a 160 chilometri orari. La Roma, che ha negli archivi mentali il sibilo delle punizioni di Agostino Di Bartolomei, lo porta in Italia. Funzionerà, non solo per le punizioni, ma anche per l’evoluzione del giocatore Mihajlovic, che di colpo, come Di Bartolomei appunto, da centrocampista diventerà centrale arretrato, direttore generale della difesa, istintivo precursore della costruzione dal basso.
Funzionerà, ma non alla Roma. Funzionerà alla Sampdoria e alla Lazio, dove lo porta sempre con sé, come fosse una coperta di Linus, SvenGöran Eriksson. E pure all’Inter, dove Sinisa chiude la carriera di calciatore nel 2006, prendendosi a tavolino il suo secondo scudetto dopo quello in biancoceleste. È serio. È lucido. È la fonte della sapienza nei club che frequenta e in Nazionale, dove segna meno ma traccia la strada degli ultimi fuochi della Jugoslavia, attraversando i cambi di denominazione geografica e le spartizioni e le dissoluzioni. Durante una partita in cui la Lazio viene bloccata e affettata come un salame da avversari particolarmente in forma, Eriksson si lascia scappare, ad alta voce: «Sempre così, quando manca Sinisa».
In Serie A ha segnato 28 gol su punizione e sembra sia un record. Tre in una singola partita, com’è riuscito anche a Giuseppe Signori. La potenza e la precisione possono passare con il tempo, la perizia tattica no. Diventare allenatore per Mihajlovic è uno sviluppo naturale, una volta che ha imparato a piangere e ad accettare gli scherzi degli uomini e della sorte. E non è un cammino da poco il suo. Studia da vice di Roberto Mancini all’Inter e se ne va quando arriva Mourinho. Non è che i due non si piacciano, è che mescolare due ingredienti così non è prudente. Poi Sinisa ha voglia di sperimentarsi in proprio. Cominciando dal Bologna, che aveva bisogno di una iniezione di punti e lui glieli procura prima di essere esonerato. Vive tutte le vicissitudini dell’allenatore medio in Italia, non importa quanto prestigioso o quanto messianico. Lo usano, lo mandano via, se ne va lui scuotendo la polvere dai calzari come a Catania. Continua alla Fiorentina, sfiora l’Inter, diventa ct della Serbia ma non raggiunge il Mondiale. Alla Sampdoria ha segnato il territorio e infatti lo richiamano come tecnico. Con il Milan va in finale di Coppa Italia, con il Torino fa il record del girone di andata, con lo Sporting Lisbona quello della rescissione rapida, nove giorni dopo l’ingaggio. E torna a Bologna. Sempre con in testa quell’idea di aggredire più che attaccare, di miscelare la qualità con la forza di spirito. Di non lasciare mai indietro il corpo e l’anima. Sarà banale ma questo era Sinisa Mihajlovic, che non ha mai preteso di essere la luce del mondo. Semmai un vento libero.
La Roma lo portò in Italia, con Samp e in biancoceleste l’affermazione