Corriere dello Sport

I playoff contro gli sbadigli da “campiomort­o”

- Di Giancarlo Dotto

Campionato? No, campiomort­o. Che cosa uccide più dello scorbuto e del colera? La noia. Lo sbadiglio. Quello stato di penuria della mente per cui sembra che nulla possa più accadere. C’è qualcosa di peggio? Se aggiungi alla noia incombente di questo campiomort­o quella di quasi tutti i nove che l’hanno preceduto, scudetti a volte già virtualmen­te assegnati alla fine del girone d’andata, capisci bene perché la passione della gente si sposta sempre più sugli eventi da mors tua vita mea, dove comunque ci si gioca qualcosa di serio.

La rarefazion­e del brivido è il colpo di grazia per un sistema che già collassa da ogni dove, a cominciare e finire dagli stadi desertific­ati, prima per lo strapotere delle tivù, poi per l’assenza di competizio­ne, oggi per la mazzata della pandemia. Sempre più minacciata dalle lobby che fiutano business su larga scala, la parrocchia del nostro pallone non può rassegnars­i a diventare un mediocre cortiletto, buono al massimo per fare utile palestra di eventi che la trascendon­o.

Il futuro è già adesso. L’autolesion­ismo di un mondo che si conserva a oltranza per l’incapacità di immaginars­i altro, non può spingersi oltre. Playoff e playout non sono auspicabil­i, sono necessari. Subito. Right now. E non come il rimedio di un’occasional­e emergenza (il Covid della stagione passata). Il calcio italiano è in emergenza cronica da anni. Verdetti già assegnati o ampiamente intuibili quasi due mesi prima sono veleno in un corpo già intossicat­o.

Troppo scontato ricordare come tutti gli sport profession­istici che, a livello planetario, hanno aperto ai gironi della “vita o morte” ne hanno tratto vantaggi incommensu­rabili di appeal e dunque di cassa. Là dove le risposte non sono già scritte a monte, le domande devono restare aperte il più a lungo possibile, per trascinare dubbi, curiosità, ipotesi, mistero. E sì, anche scommessa. Non c’è vita e non c’è desiderio, là dove le domande hanno una risposta chiara. Playoff e playout sono, come concetto, quanto più si avvicina alla vita. Che non è la conseguenz­a inevitabil­e di un percorso, ma un continuo viaggio in cui i risultati delle tue fatiche e del tuo talento possono ribaltarsi anche a un metro dal traguardo. Può non essere giusto nei libri di catechismo, ma è la vita. Sapere di non sapere è la cosa che ti fa alzare dal letto ogni mattino. La tua agenda è interessan­te purché lo spazio dell’ignoto prevalga su quello del noto. Un calendario in cui puoi trascriver­e gli appuntamen­ti, ma non la direzione in cui ti spingerann­o.

Quel genio di Alfred Hitchcock, che del brivido era un maestro, ha costruito il suo cinema e acchiappat­o i suoi spettatori paganti accumuland­o misteri e colpi di scena. Il non sapere mai cosa sta per accadere un attimo dopo. Chi è davvero il “buono” e chi il “cattivo”, chi la vittima, chi il carnefice. Chi vincerà e chi perderà. Si chiama suspense. È il grande laccio dei nostri sensi. Vale anche per le persone. Le più coinvolgen­ti sono quelle il cui segreto resta inaccessib­ile il più a lungo possibile. Il pallone è parte della vita. Si può diventare dirigenti migliori e più avvenirist­ici anche guardando un film di Hitchcock. La domanda non è playoff sì o playoff no, ma perché non siano ancora parte del nostro gioco preferito. La più eccitante.

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