I playoff contro gli sbadigli da “campiomorto”
Campionato? No, campiomorto. Che cosa uccide più dello scorbuto e del colera? La noia. Lo sbadiglio. Quello stato di penuria della mente per cui sembra che nulla possa più accadere. C’è qualcosa di peggio? Se aggiungi alla noia incombente di questo campiomorto quella di quasi tutti i nove che l’hanno preceduto, scudetti a volte già virtualmente assegnati alla fine del girone d’andata, capisci bene perché la passione della gente si sposta sempre più sugli eventi da mors tua vita mea, dove comunque ci si gioca qualcosa di serio.
La rarefazione del brivido è il colpo di grazia per un sistema che già collassa da ogni dove, a cominciare e finire dagli stadi desertificati, prima per lo strapotere delle tivù, poi per l’assenza di competizione, oggi per la mazzata della pandemia. Sempre più minacciata dalle lobby che fiutano business su larga scala, la parrocchia del nostro pallone non può rassegnarsi a diventare un mediocre cortiletto, buono al massimo per fare utile palestra di eventi che la trascendono.
Il futuro è già adesso. L’autolesionismo di un mondo che si conserva a oltranza per l’incapacità di immaginarsi altro, non può spingersi oltre. Playoff e playout non sono auspicabili, sono necessari. Subito. Right now. E non come il rimedio di un’occasionale emergenza (il Covid della stagione passata). Il calcio italiano è in emergenza cronica da anni. Verdetti già assegnati o ampiamente intuibili quasi due mesi prima sono veleno in un corpo già intossicato.
Troppo scontato ricordare come tutti gli sport professionistici che, a livello planetario, hanno aperto ai gironi della “vita o morte” ne hanno tratto vantaggi incommensurabili di appeal e dunque di cassa. Là dove le risposte non sono già scritte a monte, le domande devono restare aperte il più a lungo possibile, per trascinare dubbi, curiosità, ipotesi, mistero. E sì, anche scommessa. Non c’è vita e non c’è desiderio, là dove le domande hanno una risposta chiara. Playoff e playout sono, come concetto, quanto più si avvicina alla vita. Che non è la conseguenza inevitabile di un percorso, ma un continuo viaggio in cui i risultati delle tue fatiche e del tuo talento possono ribaltarsi anche a un metro dal traguardo. Può non essere giusto nei libri di catechismo, ma è la vita. Sapere di non sapere è la cosa che ti fa alzare dal letto ogni mattino. La tua agenda è interessante purché lo spazio dell’ignoto prevalga su quello del noto. Un calendario in cui puoi trascrivere gli appuntamenti, ma non la direzione in cui ti spingeranno.
Quel genio di Alfred Hitchcock, che del brivido era un maestro, ha costruito il suo cinema e acchiappato i suoi spettatori paganti accumulando misteri e colpi di scena. Il non sapere mai cosa sta per accadere un attimo dopo. Chi è davvero il “buono” e chi il “cattivo”, chi la vittima, chi il carnefice. Chi vincerà e chi perderà. Si chiama suspense. È il grande laccio dei nostri sensi. Vale anche per le persone. Le più coinvolgenti sono quelle il cui segreto resta inaccessibile il più a lungo possibile. Il pallone è parte della vita. Si può diventare dirigenti migliori e più avveniristici anche guardando un film di Hitchcock. La domanda non è playoff sì o playoff no, ma perché non siano ancora parte del nostro gioco preferito. La più eccitante.