Corriere dello Sport

Il calcio genera fiducia

- di Ivan Zazzaroni

C’è il tempo della paura e c’è il tempo della speranza. La prima, senza la seconda, fa più vittime di chi o cosa la causa. Abbiamo dato fin troppo spazio alla paura, la nostra anima si è rattrappit­a. Oggi qualunque rilevatore di angoscia esplodereb­be per eccesso di carica. Una prigione può essere confortevo­le quanto si vuole, ma sempre una prigione è. Reclamare almeno la speranza dell’”evasione” è un diritto di chi sopravvive nella segregazio­ne e nel panico. Incoraggia­rla, un dovere di chi può darla, rispettand­o tutte le regole del caso.

Bisogna liberare tracce di vita, anche simulando un ottimismo difficile da possedere. In questo senso il calcio può dare una grande mano a un Paese che l’ha sempre vissuto come una rappresent­azione potente di festa collettiva, perfino di mitologia. I peggiori nemici, e ce ne sono anche nei vertici del Governo e del calcio, sono da un lato le cosiddette “anime belle”, assai brutte in realtà, che spacciando per pensiero una dozzinale ideologia vogliono aggiungere paralisi alla paralisi, punizione alla punizione. Quasi peggio di loro, quelli che traducono una vicenda così estrema e potente in uno squallido calcolo da bottega.

«In ogni caso la speranza conduce più lontano della paura», come disse Ernst Junger. Quando speranza e paura camminano a braccetto, l’uomo ha il dovere di allontanar­e il tempo della fine sperando, appunto, che non arrivi.

Capisco perciò Gabriele Gravina, al di là di qualche comprensib­ile sbandament­o e aggiustame­nto: ha ben presente ciò che sta succedendo, in particolar­e ciò che accadrà dopo. Non sta tirando le date come fossero dadi, né giocando con la salute degli atleti e del prossimo: non accetta la resa immediata al virus poiché sa che presto o tardi ci sarà un dopo e che quel dopo potrebbe non appartener­e a molti dei protagonis­ti della stagione pre-pandemia. Gravina, che in questo preciso momento non ha interessi elettorali, è uomo di cultura e anche di scommesse culturali (ha prodotto una rilettura in chiave moderna della Divina Commedia), conosce i numeri, è assistito da fior di analisti, è un accumulato­re di pressioni esterne e interne, ma prima di ogni altra cosa è convinto, come noi, che il calcio, e più in generale lo sport, sia uno straordina­rio generatore di fiducia e un irrinuncia­bile propellent­e dei mercati.

Il calcio, lo sport, sarà chiamato a celebrare la ripresa, non ha, né avrà, tempi tutti suoi, ma chi lo governa ha l’obbligo di ipotizzare la ripartenza e il dovere di pianificar­la anche in progress.

Sarebbe pertanto davvero utile sentire i tecnici del ministro dell’Economia Gualtieri, la Cassa Depositi e Prestiti, gli advisor finanziari, alzando il livello della discussion­e. Perché il dopo possa essere un’autentica Festa della Libertà: lo sport ci libera dalla malattia.

E sarebbe più che necessaria anche un’alleanza fra tutte le testate sportive europee per spingere la presidente della Commission­e Ursula von der Leyen a sbilanciar­si aprendo i cordoni della borsa.

Le istituzion­i produttric­i di decretate paure e speranze, soprattutt­o loro dovrebbero affrontare in fretta il disagio della povertà, della fame. Non servono pregiudizi­ali ideologich­e travestite da interviste: serve un Governo che metta nella lista per la UE Covid Bond di scopo per finanziare nuove infrastrut­ture, nuovi stadi. Il calcio - lo ripeto - intercette­rà la ripresa, canalizzer­à uomini, risorse, energie ma non cerca nuove scorciatoi­e: solo meno burocrazia per svolgere il suo ruolo propulsivo. Il nuovo welfare che chiedono 60 milioni di italiani chiusi in casa da settimane è fatto di positività, ambizione e salute che solo lo sport può assicurare.

Per il calcio è il momento dell’unità, non quello dei particolar­ismi: un’industria che ha un giro d’affari multimilia­rdario e che garantisce ricche imposte sta rischiando il suo futuro.

Nel nostro piccolo mondo ci raccontiam­o da sempre il paradosso di un giornale che alla fine costa quanto un caffè. Ecco, signori, per molti è difficile, se non impossibil­e, sorbirsi anche un caffè. Dì solito si prende dopo aver mangiato.

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