Vicini ma senza toccarsi al tempo del Covid La performance d’arte ai Giardini del Mart «Dialogo, gesti e nuove forme di contatto»
Distanza, paure e relazioni al tempo del Covid19. Cambia l’orizzonte, il lavoro, i rapporti sociali. E anche il modo di «toccarsi», l’arte se ne fa strumento.
«Tocco dunque esisto». Nel mondo della danza, la coreografa toscana Cristina Rizzo riformula così l’assioma cartesiano del cogito ergo sum. «Il gesto del toccare – spiega Rizzo – rende reale ciò che abbiamo intorno. Ci aiuta a misurare gli spazi, a definire le relazioni e i vuoti». Soprattutto ora che il distanziamento sociale ci ha costretti a trovare nuovi modi per dimostrare la vicinanza all’altro senza sfiorarlo. Saranno questi i temi della performance artistica «Echoes, danze trasparenti», martedì 8 settembre alle 19 nel Giardino delle Sculture del Mart, nell’ambito di Oriente Occidente Festival. L’appuntamento è gratuito, su prenotazione. Per la coreografa, che si è formata nella prestigiosa accademia newyorchese Marta Graham e si è perfezionata con Merce Cunningham e Trisha Brown, sarà la prima volta al festival Oriente Occidente. Solista di magnetica presenza in «Morte del cigno» della Pavlova che con lei si è trasformato in «Invisible Piece» o nell’interpretazione, di partiture-simbolo, tra cui la stravinskiana «Sagra della primavera».
Cristina Rizzo, com’è nata l’idea di lavorare sul tatto?
«Lo spettacolo è dedicato al «toccare» inteso come gesto che ci mette in dialogo con l’altro, con la materia sensibile e insensibile che forma il mondo. Ho iniziato a riflettere su questo tema circa un anno fa».
La pandemia ha modificato la sua creazione?
«L’ha stravolta. Ho iniziato immaginando che i danzatori si toccassero tutto il tempo, per mostrare le mille accezioni che questa parola può avere. L’entrare in collisione, lo sfiorarsi, l’accarezzarsi, l’evitarsi. Poi è arrivata la quarantena. Così ho deciso di indagare cosa significhi toccarsi senza toccarsi. Essere vicini, da lontani. Da qui è nato Echoes».
La fisicità e la relazione sono elementi fondanti della danza. Ne ha tratto ispirazione?
«In realtà, più che sulla tecnica di movimento, volevo concentrarmi sulla potenzialità espressiva, emotiva e intima del gesto. Di qui la scelta di costumi semplici, eleganti e di un unico cubo come oggetto di scena, per non distogliere l’attenzione dai danzatori che, del resto, si trovano in una cornice già ricca ed evocativa. Ovvero bagnati dalla luce dell’imbrunire, con i piedi nell’erba, circondati dalle sculture del giardino del Mart, corpi solidi e belli, ma soli, perché incapaci di distendere le dita e perlustrare la vita intorno».
Lo spettacolo ha contaminazioni…
«Certo. Ad accompagnare i diversi assoli, duetti e quartetti ci saranno le sonate di Rameau, un compositore francese dell’epoca barocca, ma anche le canzoni del rapper Ateyaba. Sono contenta della commistione e soprattutto di come ho scoperto questo cantante. A suggerirmelo è stato infatti uno degli ultimi arrivati in compagnia, Kenji PaisleyHortensia».
Kenji Paisley Hortensia è un ballerino con una storia di vita che sembra la trama di «Step up», il film sul mondo della danza in cui il protagonista che lavorava come bidello in una scuola di danza diventa una star sostituendo per caso un ballerino infortunato...
«Sì, è un ragazzo pieno di talento, di origini dominicane. L’ho conosciuto a Marsiglia, dove insegno in un progetto formativo del Ministero del lavoro per l’integrazione dei giovani che vivono nelle banlieue. Ne ho circa quaranta, divisi in due classi. Il governo li incentiva a frequentare laboratori di danza, cinema, filosofia, lingua per tenerli alla larga dai guai. E come loro insegnante anche ho dovuto rimettermi a studiare un sistema di comunicazione per motivarli. Kenji si è sempre impegnato molto. È autodidatta, viene dal mondo della street dance, ha un altro ritmo nel sangue. Per lui danzare a Oriente Occidente è un premio al merito. Per me, rappresenta una bella sfida inserirlo nel quartetto di scena con tre colleghi storici come Annamaria Ajmone, Jari Boldrini e Sara Sguotti. Quando danziamo tutti insieme, due diverse culture – la nostra occidentale e la sua criolla – si toccano e, pur senza rinunciare alla propria essenza, danno vita a qualcosa di originale».
L’impatto della pandemia è stato drammatico anche per il mondo dello spettacolo. Lei che cosa si porta a casa da questi mesi?
«La necessità di lavorare meno e meglio. Di prenderci del tempo per riflettere. Per curare i rapporti umani. E per lottare affinché i cambiamenti sociali che desideriamo accadano».