Se John Fante beve Schiava Spunti letterari in cantina
Parlando con un ristoratore, di recente, ho avuto un’ulteriore conferma di come oggi molte persone a un vino richiedano soprattutto leggerezza e freschezza. Un vino di facile beva. Inconsapevolmente quell’oste mi fece un assist per una divagazione letteraria, di quelle che piacciono a me. In una prima traduzione italiana di The Brotherhood of the Grape, emozionante saga familiare del grande narratore italoamericano John Fante, si abusò in termini e in geografia chiamando in causa per la parola inglese «grape» nientemeno che il Chianti.
È innegabile che la ruvidità di certi personaggi raccontati da Fante richiami il graffio maschio dei tannini, ed essendo il vino toscano decisamente uno dei più celebri tra quelli che ne vantano in quantità, la traduzione probabilmente parve obbligata. Sta di fatto che fu una forzatura linguistica.
In un’edizione successiva del romanzo si preferì tornare sui propri passi allineandoli all’originale, e il titolo del libro divenne La confraternita dell’uva. Nemmeno la traduzione fedele, però, mi convinceva. Da accanito lettore di Fante mi pareva che non cogliesse il suo stile. Ed ecco che l’assist del ristoratore divenne goal. Fante, per tenere vivo l’immaginario e la tradizione dei suoi avi abruzzesi sarà stato certamente amante di vini intensi e di corpo, come il Montepulciano. Se può essere vero che le mani piccole sono più adatte a suonare il violino così come le spalle larghe e tornite di muscoli a tirar su case, allora a me pare che al di là di quel che amasse Fante godersi nel bicchiere, semplificando all’estremo, la sua scrittura sia lineare, asciutta, proletaria nell’uso di slang urbano e parole dell’universo migratorio. Leggera.
Partendo da qui, ne colgo una sintonia di fruibilità con la facilità e la leggerezza di beva di un vino quotidiano: per la traduzione di quel titolo non posso che chiamare in causa la nostra Schiava! Di nuovo lei, noteranno gli aficionados di questa rubrica. Bentornata! Sempre lei! Stavolta è: «La confraternita della Schiava».
In Sudtirolo regnava sovrana e ancora oggi non viene dimenticata, a Trento dopo i fasti del passato siamo ormai quasi a rischio estinzione. Rimane, però, la delizia degli schiavi della schiava, la passione dei terribili schiavisti. Come siamo noi della cerchia di Solomon. Al di là delle paturnie folcloristiche e del tifo da ultrà, per molta gente l’idea di un bicchiere di Schiava a tutte le ore suona autentico come un coro di montagna. Infatti, non sono in pochi a vinificarla a casa propria. Oh, non che serva tornare alle gloriose percentuali del passato, quel che basterebbe è il rispetto di un minimo sindacale, anzi, basterebbe proprio solo quello: rispetto.
«Non possiamo fare proprio tutto» ci disse tempo fa un produttore, interrogato sull’argomento. Tutto no, quel che vale la pena forse sì. Poi chissà, il tempo ha spesso la ragione dalla sua parte. Anche Fante partì forte, poi la sua remunerata attività di sceneggiatore gettò quella a più alto tasso artistico di narratore nell’ombra, prima, e nel dimenticatoio poi. Anni dopo, lo riscoprimmo per quello che era veramente: un grande scrittore di romanzi e racconti. Chissà che, come per lo scrittore italo-americano, anche per questi territori trentino-tirolesi, la rincorsa verso l’opulenza del facile successo non finisca poi col ritorno all’autenticità. Speriamo non avvenga post mortem. Quindi, «Dago» di tutto il mondo, dateci dentro!
In collaborazione con www.imperialwines.org . Riferimento twitter @impwines , #solomont.
Pochi produttori oggi puntano sul vitigno. Ma forse, come lo scrittore, avrà un riscatto