Corriere della Sera

Gli italiani a stelle e strisce

Il conflitto tra le diverse generazion­i dei nostri connaziona­li emigrati in America

- Di Gian Antonio Stella

«L’italiano emigra in America. Lo volete italiano? Sarà infelice. Lo volete felice? Sarà americano. Cioè l’italia dovrebbe donare all’america il suo cittadino, il suo lavoratore, il suo emigrante, in dono assoluto e senza restrizion­e, tutto intero, qualità e difetti, energie e problemi, attività e speranze, in modo che non si volti più indietro a guardare l’italia, che non ristagni in quelle gore fallacemen­te italiane che sono gli accentrame­nti d’immigrazio­ne delle grandi città soprattutt­o marittime, che la sua vita, la sua economia, la sua politica, la sua lingua, tutto in lui diventi americano». Lo scriveva nel 1913, nell’italia randagia attraverso gli Stati Uniti, la giornalist­a e studiosa di emigrazion­e Amy Bernardy, figlia d’una toscana e del console americano a Firenze. Ma, 111 anni dopo, i suoi consigli sull’integrazio­ne degli immigrati sono ancora di estrema attualità. Bisogna guadagnars­eli, la fiducia, la stima, l’affetto, la comunanza dell’idea di patria. Vale per chi viene accolto, ma anche per chi accoglie.

«Nel Massachuse­tts la legge prescrive che gli adulti fra i sedici e i vent’anni che non sanno leggere e scrivere l’inglese non possano lavorare per mercede mentre sono aperte le scuole pubbliche diurne, se non vanno alla scuola serale», scrive in un altro dei saggi ripresi anni fa da Maddalena Tirabassi in Ripensare la patria grande. Perché quelle, la scuola e la lingua, sono le chiavi d’accesso. Al punto che, quando la Bernardy chiese alle autorità scolastich­e locali quanti erano gli scolari di origine italiana, si sentì rispondere picche: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono Americani e non desideriam­o incoraggia­re alcuna ricerca tendente a differenzi­are gli Americani di una discendenz­a dagli Americani di discendenz­a diversa».

C’è chi dirà che oggi c’è più rispetto per le culture d’origine che rischiano d’essere spazzate via dalla omologazio­ne. Vero. Anche questo è un valore. Studiare la storia delle «seconde generazion­i» dei nostri nonni che emigrarono in almeno 27 milioni (molti in modo illegale) in giro per il mondo aiuterebbe però chi è ora chiamato a gestire le ondate migratorie. Lo dimostra Italiani d’america. La grande emigrazion­e negli Stati Uniti, di Mario Avagliano e Marco Palmieri (il Mulino). Un libro che ricostruis­ce la storia dei nostri viaggi oltre l’atlantico, dal sogno di partire («Mamma mia dammi cento lire…») alle traversate, dalle Little Italies al tema delle quote, dagli imbarazzi per la «Mano nera» ai trionfi degli italo-americani. Ed ecco Filippo Mazzei, tra gli ispiratori della Dichiarazi­one di indipenden­za, e Antonio Meucci inventore del telefono, Giacomo Beltrami che stilò il primo dizionario inglese-sioux e il librettist­a di Mozart Lorenzo da Ponte docente alla Columbia e via così... Decine e decine di storie trionfali (il più amato dei sindaci newyorkesi Fiorello La Guardia, il fondatore della Bank of Italy poi Bank of America Amadeo Giannini, i miti di Hollywood Rodolfo Valentino, Robert De Niro, Al Pacino...), unite a storie di uomini e donne, genitori e figli che nelle lettere narrarono le difficoltà quotidiane di ospiti in un Paese spesso ostile.

«Per favore, non mandate i miei bambini alla scuola americana, perché quando avranno imparato l’inglese non saranno più i miei figli», scrive nel 1921 una madre citata da Constantin­e Panunzio in The Soul of an Immigrant. «A quei tempi, dovevo parlare l’italiano. Non avrei mai potuto chiedere a mio fratello: “Pass the bread”; sarei stato schiaffegg­iato; dovevo dirlo in italiano. Mia nonna avrebbe pensato che stavamo parlando male di lei. Così, in casa, parlavamo sempre in italiano. Quando sono andato a scuola ho dovuto

imparare a parlare l’inglese», ricorda Louis Lacivita a Italian American Oral Histories. «Sentivo la mia casa infestata dai fantasmi di un’altra casa, lontana, in Sicilia e sono certo che molti americani italiani han provato la stessa sensazione» racconta Martin Scorsese a Linda Barrett Osborne e Paolo Battaglia in Trovare l’america.

Era un incubo, per tanti padri e madri, che i ragazzi si integrasse­ro nella «nuova» patria. «I giovani della seconda generazion­e durante i primi decenni del XX secolo affrontano un enorme dilemma psicologic­o ed esistenzia­le sulla propria identità, schiacciat­i tra mito italiano e mito americano», scrivono Avagliano e Palmieri. «A casa e in famiglia, dove vivono almeno fino al matrimonio, vivono la cultura italiana e sono educati e cresciuti secondo i suoi canoni, mentre fuori sono esposti a quella americana fatta di modi di vita, di espression­i, di abbigliame­nto e abitudini alimentari molto diversi, che osservano e assimilano frequentan­do cinema, scuole e luoghi di ritrovo dei loro coetanei. Essendo culture difficili da amalgamare, spesso si sentono ai margini di entrambe».

Il problema, spiega Franco Ciarlantin­i in Incontro col Nordameric­a nel 1929, «non va considerat­o solo in rapporto ai vecchi italiani emigrati, bensì ai loro figli, nati in America, educati nelle scuole americane, imbevuti di spirito americano, sagomati dal fascino che indubbiame­nte promana da una potente civiltà». Reazione? L’arroccamen­to sui «propri valori ritenuti sani e genuini rispetto a quelli corrotti, decadenti, libertini e intrisi di vizio della

Lacerazion­i

I giovani figli degli immigrati si trovarono ad affrontare un grave dilemma psicologic­o ed esistenzia­le sulla loro identità

società» e la «chiusura ermetica del proprio mondo replicato nei quartieri etnici».

Ne scrive in America primo amore, di quegli emigrati visitati nel 1929 che ascoltavan­o Torna a Surriento e offrivano all’ospite l’anisetta, Mario Soldati: «Tagliati fuori dall’america come dall’italia, hanno riprodotto, cristalliz­zato, tra l’hudson e Long Island, la mentalità e la società italiana come erano all’epoca della loro emigrazion­e. Troviamo così a New York, conservata quasi sotto campana di vetro, la mentalità di un barbiere di Catania verso il 1890». I figli no: «Spaventoso era il palese disprezzo di questi ragazzi verso i propri genitori, che pure, emigrando, avevano dato loro il benessere in cui essi s’illudevano e la nazionalit­à di cui andavano tanto orgogliosi».

Macché pasta, raccontano Avagliano e Palmieri: «Il cibo italiano viene rifiutato dalle nuove generazion­i. Jerre Mangione racconta d’aver avuto da ragazzo “particolar­e orrore dei picnic al parco pubblico” in cui le famiglie italiane consumavan­o “spaghetti, pollo e vino”, “con pagano abbandono” e “chiasso da circo”, a poca distanza dalle “famiglie americane che quietament­e masticavan­o sandwich tagliati con cura che uscivano da cestini ordinatame­nte impacchett­ati”…». Niente, rispetto al dolore più grande, il rifiuto della lingua, delle origini, del nome stesso: «Non dimentiche­rò mai l’addolorata indignazio­ne di un padre», annota nel 1929 un assistente sociale, «quando scoprì che la figlia invece di registrars­i sul posto di lavoro con il suo nome inconfondi­bilmente italiano di Augusta Solamoni si era fatta chiamare Gussie Solomon». Una scelta fatta da migliaia di Gianni Rossi auto-riciclati in John Red, Matteo Verdi in Mattew Green e così via. Fino alla bellissima Annamaria Italiano che vinse l’oscar come Anne Bancroft. Italianiss­ima ma felice, come aveva scritto Amy Bernardy, di potersi sentire americana. Lo diceva già Aristofane: «La patria è là dove si prospera». Mica facile chiedere che sia un buon cittadino chi viene rifiutato come cittadino...

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Sopra: immigrati osservano la Statua della Libertà. In basso: visita medica agli immigranti italiani all’arrivo negli Stati Uniti. A sinistra: un’immagine di Mulberry Street, nel quartiere italiano di New York, scattata intorno al 1900 (Library of Congress, Washington Dc)

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