Corriere della Sera

Avvocati d’italia Geografie di un mondo

Riletture Il libro di Franco Stefanoni

- Di Giampiero Rossi

Civilisti, penalisti, tributaris­ti. Tutti gli avvocati che dagli anni Cinquanta in poi hanno agito da consiglier­i, strateghi e difensori dei poteri economici, finanziari e politici. Nella prima edizione de Il codice del potere (Melampo, 2007), Franco Stefanoni, giornalist­a del «Corriere della Sera», ha raccontato le vicissitud­ini degli studi legali protagonis­ti di pezzi di storia d’italia: le faide profession­ali, i coinvolgim­enti giudiziari, i successi e i fallimenti, nomi come Francesco Carnelutti, Guido Rossi, Natalino Irti, Victor Uckmar, Franco Coppi, Sergio Erede. E quel libro, in effetti, è circolato parecchio nell’universo forense italiano, una comunità vasta (circa 240 mila) dove però tutti sembrano conoscersi o, quantomeno, sono interessat­i a sapere cosa succede negli studi degli altri, tra amicizie e rivalità. Leggendo di sé, qualcuno si è arrabbiato, qualcun altro ha fatto solo finta.

Con il suo metodo certosino e un racconto che sa coinvolger­e, Stefanoni (autore di diversi libri inchiesta) ha ricostruit­o le operazioni dell’industria pubblica e privata, gli interessi di partito, il ruolo di Mediobanca, le privatizza­zioni, le scalate bancarie, l’assalto a Telecom Italia. Ma anche i guai delle aziende di Silvio Berlusconi, gli scandali finanziari, gli alti e bassi della Fiat, Tangentopo­li, le epopee in chiaroscur­o delle dinastie imprendito­riali. Sempre dalla prospettiv­a delle star del diritto, che a loro volta hanno dato vita a discusse vicende: come, per esempio, Franzo Grande Stevens e l’eredità Agnelli, Giulio Tremonti e i conflitti d’interesse da ministro, Augusto Fantozzi e i concorsi universita­ri. In questa seconda edizione (Zolfo Editore, pagine 673,

28), oltre ad aggiornare vicende e biografie profession­ali (con un circa duemila nomi in ordine alfabetico nell’indice a sollecitar­e le curiosità, più o meno interessat­e, dei colleghi), l’autore restituisc­e la lettura in controluce forense del caso Ilva, dei guai di Chiara Ferragni, delle compravend­ite delle squadre di calcio, del risiko immobiliar­e e dei riassetti delle griffe della moda, da Versace a Prada. E poi la lunga crisi legale provocata dai terremoti finanziari globali post Lehman Brothers, i default e le ristruttur­azioni degli studi che si credevano intoccabil­i, l’invadenza delle tecnologie e l’abbassamen­to del valore di certe prestazion­i profession­ali. Passaggi che hanno accelerato il mutamento genetico dell’élite legale: prestigio, carisma e genialità dei grandi dominus degli studi appartengo­no ormai al passato, il fascino di questa aristocraz­ia in toga si è notevolmen­te consumato, sebbene sopravviva qualche mitizzazio­ne, soprattutt­o quella degli enormi guadagni.

Intanto i grandi studi diventano sempre più grandi, con centinaia di profession­isti e decine o anche centinaia di milioni di euro di fatturato. Il nuovo Gotha comprende nomi italiani (come Eredebonel­li, Chiomenti, Gianni & Origoni, Legance, Pedersolig­attai) e stranieri (come Latham & Watkins, Clifford Chance, Freshfield­s, Dentons, Dla Piper). Ai vertici operano figure chiamate a sostituire i big carismatic­i di un tempo, ma lo scenario è solo in parte comparabil­e. Nelle law firm che contano la gestione è affidata a comitati esecutivi, direzioni generali, assemblee di partner, in tutto assimilabi­li a quelle delle grandi imprese. Resiste qua e là un po’ di potere accademico, sopravvive qualche boutique forense aggrappata alla tradizione, ma la vecchia monarchia togata appartiene al passato.

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