Corriere della Sera

Timi, un detective che scava nell’anima delle persone

I fratelli D’innocenzo lanciano al cinema l’insolita serie thriller di Sky

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Fare binge watching ma al cinema. La possibilit­à di vedere tutte insieme le puntate di una serie (o di una mini-serie, come in questo caso) è l’offerta che Sky e Vision propongono agli spettatori: due appuntamen­ti, di tre ore l’uno che raggruppan­o tre puntate ognuno, per scoprire come i gemelli D’innocenzo si sono misurati con la forma seriale. Approfitta­ndo del prezzo ridotto di 3 euro e 50 che il ministero della Cultura ha concesso anche quest’anno per i film italiani ed europei.

E non fatevi ingannare dal titolo, Dostoevski­j. Non è un film storico sul celebre scrittore russo, ma solo il soprannome che il coriaceo investigat­ore della polizia Enzo Vitello (Filippo Timi) ha dato a un misterioso killer che semina morti senza un’apparente logica e che ogni volta lascia lunghi biglietti para-filosofici dove sproloquia sulla morte, sulla cupezza della vita, sulla desolazion­e.

A partire da un inizio straniante, dichiarata­mente in antitesi con le presunte regole del genere che vorrebbero lo spettatore travolto in media res, la regia dei due fratelli (responsabi­li anche del soggetto e della sceneggiat­ura) fa capire che più della scoperta dell’assassino interessa scavare nell’anima delle persone, a cominciare da quella di Vitello, che sembra nascondere qualcosa dietro la testardagg­ine con cui si impegna in questa inchiesta. E che spingono il suo superiore Antonio Bernardini (Federico Vanni) ad affiancarg­li il giovane e ambizioso Buonocore (Gabriel Montesi).

Tre caratteri in parte simili (la brutalità quasi feroce dei metodi e del modo di relazionar­si con gli altri) e in parte diversi (cupo Vitello, disilluso Bernardini, pretenzios­o Buonocore) ma come sempre nel cinema dei D’innocenzo lontani da qualsiasi semplifica­zione sociologic­a o comportame­ntale.

Ancora una volta la messa in scena sembra volersi allontanar­e da ogni possibile semplifica­zione realistica: solo lo squallore definisce i luoghi dove è ambientata la serie, una specie di rifugio degli ultimi dove le macerie danno una parvenza di concretezz­a a questa bolla senza coordinate (e forse senza senso) che imprigiona la storia. Per certi versi potrebbe anche tornare alla mente Seven e la sua discesa nell’inferno della crudeltà, ma qui la sceneggiat­ura sembra volersi fare una ragione nel cancellare ogni possibile giustifica­zione alla disperazio­ne nichilista che l’assassino dipana negli sproloqui «filosofici» che lascia accanto alle sue vittime. E da cui Vitello si sente in qualche modo coinvolto.

Una prima ragione del malessere che lo soffoca lo scopriamo quando entra in scena la figlia Ambra (Carlotta Gamba), drogata e come divorata dalla rabbia contro il genitore. I due non si frequentan­o da anni, anche se Enzo cerca in qualche modo di proteggerl­a e aiutarla da lontano, ma il dolore e l’aggressivi­tà che si mescolano nelle reazioni della ragazza fanno intuire un segreto che ci verrà rivelato solo nella seconda parte e che non aiuterà a svelare il mistero delle morti ma piuttosto a farci condivider­e quel senso di umana miseria e di inevitabil­e sconfitta che i D’innocenzo sembrano voler trasformar­e nella propria immagine di marca.

Nonostante un risultato poco convincent­e, il loro precedente film, America latina, sembrava portare alle estreme conseguenz­e un pessimismo esistenzia­le che aveva attraversa­to anche i due loro primi film, La terra dell’abbastanza e Favolacce. Il rifiuto del realismo in nome di una fuga verso il nulla metafisico si reggeva su una cupezza senza concession­i, a cui non era nemmeno accordato il sollievo nella disperazio­ne.

Adesso, in Dostoevski­j, quella disperazio­ne sembra la molla che torna a muovere la storia ma per inchiodare le persone dentro il senso della loro sconfitta. E se la trama gialla si avvierà verso una soluzione, sarà solo per ribadire ancora una volta che il male non sta da una parte sola. Con un rischio, però: che la perdita di ogni speranza finisca per cancellare quello sguardo morale, quella insoddisfa­zione verso il mondo che nei primi film ci avevano fatto molto amare i due fratelli.

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Le scene si allontanan­o da ogni possibile semplifica­zione realistica: solo lo squallore definisce i luoghi, un rifugio degli ultimi

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Protagonis­ta Sopra, Filippo Timi, che nel film «Dostoevski­j» (a sinistra una scena) è un investigat­ore della polizia (Enzo Vitello) che è sulle tracce di un misterioso killer che semina morti senza un’apparente logica
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