Il destino del leone ha 60 anni E Wilbur Smith ci svelò l’africa
Il primo sì arrivò dopo venti no. Rifiuti che per un altro, più orgoglioso, potevano bastare per dire basta. Lui tirò dritto. E non si sa se per disperazione o per tenacia. Magari per tutte e due. Così, giusto sessant’anni fa, uscì nelle librerie il primo romanzo di Wilbur Smith. Pubblicato da Heinemann, prestigiosa casa editrice londinese. Come titolo avevano scelto Il destino del leone (When the lions feeds). In Italia arrivò nel 1981, edito da Longanesi.
Era l’inizio di un’avventura letteraria infinita. Con 140 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Un sogno cominciato negli anni della scuola. La passione per la scrittura che sgorga ascoltando i racconti di un nonno che sembrava venir fuori da un’altra epoca. Quando l’africa era davvero un continente misterioso e un viaggio conosceva solo la data di partenza. Wilbur capisce che per farsi leggere deve scrivere delle cose che sa. Dei luoghi, delle persone, della storia. Per lui è quel pezzo di mondo che si affaccia su due oceani e dentro c’è una natura come da nessun’altra parte.
Wilbur ci è nato (nel 1933) in quel posto che ha cambiato nomi e governanti ma è rimasto lo stesso anche quando è cambiato del tutto. Nella Rhodesia del Nord che adesso è Zambia ma allora faceva parte di un’enorme enclave che comprendeva anche il Sudafrica e il futuro Zimbabwe. Tra le colline verdi del Natal, la terra degli zulu, e dei primi pionieri venuti si snoda la vicenda dei fratelli Courtney, protagonisti, con i Ballantyne, di una lunga saga. Ci sono gli echi de La valle dell’eden di John Steinbeck (l’autore preferito da Smith) e più su ancora fino a Caino e Abele. Una storia infinita sempre uguale e sempre diversa. Due fratelli antagonisti che sono le due anime di Wilbur Smith. Il coraggioso e temerario Sean, il riflessivo e complessato Garrick. Dentro e attorno a loro esplodono sentimenti e tensioni immortali. Avidità, violenza, amore, odio. Tutti portati all’eccesso o, meglio, mai nascosti dietro il paravento dell’ipocrisia.
Wilbur all’epoca ha 31 anni, un matrimonio già finito e un lavoro come contabile che di buono ha solo lo stipendio a fine mese. Racconta gli scontri tra i coloni bianchi e le popolazioni autoctone. La corsa all’oro e ai diamanti. I ranch immersi in paesaggi da stropicciarsi gli occhi. Un Paese, il Sudafrica, che è l’epicentro di mille contraddizioni. Ancora sotto l’impero britannico e parte del Commonwealth, ma con la tribù bianca dei boeri che scalpita e cerca spazi lontani dagli inglesi.
Un libro in anticipo sui tempi. Infatti incontra lo sbarramento dei censori e il favore del pubblico. In Sudafrica viene addirittura proibito. Per le scene di sesso definite troppe esplicite. Smith deve subire un processo. Negli Usa il romanzo finisce nel mirino della critica perché considerato razzista e violento. Raccontare un Paese complicato, ostaggio dell’apartheid, è un compito improbo soprattutto per chi ci vive. Non resta che testimoniare i fatti, anche se in forma romanzata, senza schierarsi ma senza neanche potersi scrollare di dosso la propria sensibilità. Sessant’anni dopo Il destino del leone pecca di ingenuità, eppure è anche profetico. Chi ci legge solo avventura e azione ha lo sguardo
miope. Generazioni di lettori hanno capito il Sudafrica più dai romanzi di Wilbur Smith che da tanti saggi di illustri esperti incapaci di farsi comprendere o così di parte da risultare poco credibili. Nei suoi bestseller non c’è la verità assoluta. Solo una testimonianza onesta.
«Tutti i miei libri sono stati ispirati dalla passione, sin dal mio primo tentativo fallito», scriveva Wilbur Smith nella sua autobiografia Leopard Rock. «Devono esserlo per forza, perché all’inizio li scrivi durante ore rubate, dopo l’orario di lavoro o prima di andare al lavoro, durante i fine settimana mentre il resto dell’umanità sta facendo baldoria. Scrivere è invasivo, è un compito che richiede energia e tempo. A volte le parole scorrono come un fiume in piena, altre volte sono semplici gocce che bisogna strappare dal letto del fiume asciutto». Tutto vero, anche sessant’anni dopo.
La critica
In Sudafrica il romanzo fu proibito perché «spinto». Negli Usa fu considerato razzista