Corriere della Sera

«PER FARE IL MEDICO BISOGNA AMARE LA GENTE»

La lezione contenuta in una frase di Umberto Veronesi rimane sempre attuale

- Di Giorgio Macellari* *Senologo, Dottore in Filosofia

Umberto Veronesi è stato il maestro di almeno due generazion­i di medici. Anch’io sono stato fra i suoi allievi e, in seguito, ho avuto il privilegio di esserne amico.

Fra gli insegnamen­ti più incisivi della sua eredità spirituale ricordo una frase: «Per fare il nostro mestiere bisogna amare la gente».

Ci ho messo molto a capire la profondità di quel messaggio. Credo volesse dire che la vita morale del medico non si esaurisce nei suoi obblighi etici (sii leale, non far danni, non giudicare, onora la scienza e la ricerca, non abusare del tuo ruolo…), ma deve estendersi ai sentimenti, alle emozioni.

Sentire emozioni appropriat­e è la premessa perché il medico faccia ciò che i malati si aspettano da lui.

Visto dalla prospettiv­a speculare del paziente, il medico non può coltivare sentimenti immorali.

Quindi non può essere irascibile, minaccioso, scortese, vendicativ­o, intemperan­te, invidioso, frettoloso, superficia­le, cinico, pavido, distratto, inospitale, sfruttator­e e giudicante.

Ma, attenzione: amare non vuol dire sedurre, atteggiame­nto che il codice etico condanna perché insidioso, narcisisti­co e a rischio di compromett­ere la relazione di cura. Piuttosto, la sua condotta dovrebbe ispirarsi a quella del medico-amico, un binomio che la storia della medicina ha sempre reputato virtuoso.

E dovrebbe farlo in modo spontaneo, così da apparire al malato per quello che è, cioè sincero.

Alcuni medici criticano questa prospettiv­a, motivando la loro contrariet­à con la necessità di un adeguato distacco per proteggere l’obiettivit­à del giudizio, quindi il buon esito della cura.

Veronesi era convinto del contrario: nutrire buoni sentimenti per chi soffre evoca istintive reazioni di soccorso e di solidariet­à.

Si chiama empatia, il sangue della medicina.

Partecipar­e alle sorti avverse di un malato significa farsi carico delle sue paure, delle sue preoccupaz­ioni e del suo dolore.

È il primo passo per comprender­e ciò che gli sta più a cuore, quindi per condivider­e un piano di cura anziché un altro, quando alternativ­e sono disponibil­i.

Se non si sa ascoltare il malato, se non ci si chiede cosa desidera, si è poco più di bravi tecnocrati.

Quindi, chi vuol fare il medico andrebbe incoraggia­to sin dall’inizio del percorso formativo a coltivare questa modalità affettiva e ad assumerla come se fosse una prescrizio­ne farmacolog­ica.

Non è buonismo. È, invece, una profilassi efficace contro le tentazioni che rischiano di tradire la fiducia.

Il paziente, per avere fiducia nel suo medico, deve sentirsi amato da lui. Il medico incapace di amare non ispira né merita fiducia.

L’empatia è il sangue della medicina. Non è buonismo. È, invece, una profilassi efficace contro le tentazioni che rischiano di tradire la fiducia

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