«Mio figlio non ama le moto, era proprio ciò che speravo Valentino? Io ero accomodante, lui più bravo e anche eterno»
Loris Capirossi: ogni tanto mi faccio un giro in pista per provare l’adrenalina, in strada uso solo lo scooter elettrico
Tre titoli mondiali, 328 Gran Premi, migliaia di chilometri ad alto rischio per arrivare ad occuparsi dei rischi altrui. Loris Capirossi, anni 50: vive di rimpianti o di progetti?
«Rimpianti nemmeno uno perché la vita mi ha dato moltissimo. Progetti, molti. Lavorando per migliorare le condizioni di chi corre nel mondiale di motociclismo, resto in contatto con tutti i piloti. La sicurezza, non soltanto nello sport, è la cosa più importante, non si finisce mai di imparare e la tecnologia ci sta aiutando moltissimo».
Incidenti durante le corse, molti e gravi. Si può fare di più?
«Certo, anche se talvolta non è proprio possibile intervenire. Se un pilota cade al primo giro, viene investito quasi inevitabilmente. Stiamo studiando come avvertire all’istante chi corre, usando l’elettronica, ma le tempistiche sono strettissime».
Vivere rischiando di morire. Come si fa, una volta smesso, a gestire i vuoti di adrenalina?
«È difficile perché l’adrenalina è tutto, è la droga migliore del mondo. Continuo ad andare in pista per conto mio proprio per ritrovare una condizione estrema, per respirare quella roba là, ma si tratta di esperienze confinate, mi bastano. Sono una persona equilibrata. Dunque, ho imparato a gestire anche il bisogno del brivido che compare di tanto in tanto».
Per la sua ultima corsa, a Valencia, nel 2011 invece del numero storico, il 65, corse con il 58 di Marco Simoncelli, morto pochi giorni prima, in Malesia. Fu quella tragedia
ad accelerare il ritiro?
«No, avevo deciso tempo prima, mentre mi trovavo sotto la moto dopo una caduta ad Assen, in Olanda. In quel momento pensai: basta, è ora di finirla. Lo comunicai a tutti e si trattava di concludere la stagione. Non pensavo di vivere una giornata come quella che portò via Marco, tremenda, bruttissima. Non vedevo l’ora di piantarla davvero».
Il momento di massima paura. È un ricordo ricorrente?
«Australia, anno 2005, caduto in fondo al rettilineo. Nell’impatto mi esplose un polmone. Sul momento non sembrava una situazione di estrema gravità. Con mia moglie, mio padre e un medico andammo in auto sino all’ospedale più vicino a Philip Island. Ci arrivai praticamente morto, con una autonomia vitale di un minuto e mezzo. Mi piantarono un tubo tra le costole da sveglio, senza anestesia e quel momento non lo dimenticherò mai più».
Di lei si è sempre detto: una resistenza al dolore fisico assoluta. Come lo spiega?
«Mah, ho corso spesso in condizioni non perfette. Ma il vero mago è stato il dottor Claudio Costa. Dopo una caduta gli domandavo: quando posso tornare in moto? Lui: quando vuoi tornarci? Domani, rispondevo. Bene, allora domani correrai. Il dolore è sempre stato un problema secondario per me».
Sposato con Ingrid dal 2002. Anche lei, con la paura, ha dovuto fare i conti. Più serena oggi?
«Beh, certo. Ci conoscemmo per caso ad una festa a Sanremo. Subito dopo il fidanzamento cominciò a seguirmi sui circuiti. Non è facile per una persona che ama un pilota assistere alle corse. Mi diceva: questo è il tuo mondo, se ti piace, continua, ma devi pensare anche alla tua vita fuori di qui. Non mi ha mai forzato a smettere, ma soffriva. Ora è molto più rilassata. Penso sempre di essere stato fortunato ad incontrarla. Se dovessi tornare indietro sposerei Ingrid di nuovo».
Un figlio, Riccardo, che non ama correre. Meglio così?
«Non è mai stato troppo interessato alle moto e di questo sono contentissimo. Con lui ho usato una tattica vincente, mettendolo in sella all’età di tre anni. Così, quando ha cominciato a pensare con la propria testa, ha detto: babbo, basta così. Era il mio obiettivo segreto. Ha 16 anni, pratica pugilato e sono contentissimo».
Viaggia in scooter per non farsi indurre in tentazioni velocistiche. L’ha detto lei ma non ci crede nessuno...
«Invece è verissimo. Scooter elettrico, perfetto per muovermi a Montecarlo dove vivo, lento e comodo. Sulle strade, in moto, avrò percorso al massimo trecento chilometri in tutta la mia vita».
I rischi, su strada, sono davvero più alti rispetto alla pista?
«Molto più alti. Milioni di pericoli inaspettati. La strada dovrebbe essere utilizzata per quello che è, piena di imprevisti. Viaggiare su due ruote è bellissimo, puoi osservare cose che in auto non vedi. Ma serve prudenza, una attenzione continua. È che il mercato offre modelli potenti come una MotoGp, roba da 320 all’ora...»
Valentino Rossi è un antico compagno di avventura. Mai successo di invidiarlo, di criticarlo?
«No. Valentino è stato semplicemente più bravo di me. Formidabile in pista e magari, a differenza mia, molto categorico nelle sue scelte. Cambiando squadra, scegliendo le persone che avrebbero collaborato con lui. Io ero più accomodante. È passato alle auto e smetterà di correre a 50, a 60 anni. Ha una passione, una vitalità senza fondo. Valentino è eterno».
Come mai così tanti campioni romagnoli?
«Siamo tutti fissati con i motori. Se entri in un bar in Emilia o in Romagna, senti solo parlare di moto».
Piaceri della vita. Amici, vacanze, divertimenti. Quali?
«Il piacere massimo, per me, viene dallo stare in famiglia.
La moglie
«Ingrid non mi ha mai forzato a smettere, ma quando correvo per lei era una sofferenza»
Sono una persona che ama stare a casa, condividere una quotidianità normalissima, per nulla portata alla mondanità. Quando posso cerco di vedere i miei genitori, mio fratello, i compagni della mia infanzia con i quali sono rimasto in rapporti».
Eppure un hobby esiste: automobili da collezionare...
«È vero, sempre stato appassionato di auto. Ma questi sono amori secondari dei quali non mi piace parlare. O, meglio, non sopporto chi ostenta ciò che ha la fortuna di possedere. È qualcosa che custodisco in forma privata, ecco».
È nato a Castel San Pietro, vive a Montecarlo. Qual è il posto del cuore?
«È l’Australia. Sia io, sia mia moglie, sia mio figlio, siamo molto innamorati di quel luogo. Ci vado da trent’anni, abbiamo fatto lì il nostro viaggio di nozze. È un Paese che mi stupisce sempre, quando torno a Sidney vado al nord, verso Port Douglas o Surfers Paradise. Unico problema: è proprio lontana».
Cinque anni in Ducati, dal 2003 al 2007. Quattro Gp vinti, una fatica bestiale, qualche incidente quasi mortale. I tempi di quel fidanzamento erano sbagliati?
«Ogni tanto me lo domando pure io. Forse sono nato troppo presto. Penso che avere avuto la Ducati di oggi ai miei tempi, avrebbe comportato un gran divertimento. Pazienza, mi è andata bene lo stesso».