Corriere della Sera

«Del mio ritratto Eco disse: non sono io, è la mia bisnonna Quella sfuriata di Calvino che mi lasciò disperato»

Tullio Pericoli: «Con Calasso ci fu complicità, la nostra ultima telefonata fu commovente»

- di Paolo Di Stefano

Non c’è domenica che non vada a lavorare nel suo atelier. Tullio Pericoli è infaticabi­le e forse per questo i suoi 86 anni non si vedono: dipinge, scrive, progetta, non si stanca di corteggiar­e l’arte. Non si stanca nonostante la certezza, avanzando l’età, che quella signora capriccios­a non si concederà mai del tutto: «Con gli anni cresce una vaga sensazione di fallimento, ma per fortuna a ogni risveglio ritorna il piacere di dipingere».

Se non ci fosse la pittura?

«La pittura è stata la mia salvezza. Non ho mai pensato, neanche da bambino, di poter fare un altro mestiere. Neanche quando studiavo giurisprud­enza a Urbino».

Il lavoro prende tutto?

«Divido grossomodo la giornata tra l’informazio­ne e la lettura al mattino e la pittura nel pomeriggio».

Un hobby?

«Quando torno a casa, nelle Marche, mi piace andare a pescare al mare oppure, in solitudine, nei torrenti di montagna. È una passione che ho sempre avuto».

Un pittore può avere un colore preferito?

«Il colore che uso di più è tra il verde e il terra di Siena, che somiglia al mio paesaggio. Se dovessi tenere un solo tubetto, sceglierei il terra di Siena, anche perché contiene la parola “terra”».

Un amico perduto con cui rifare una cena?

«Con Giorgio Bocca, a casa sua in via Bagutta, ma con lui in cucina, perché il Bocca cucinava divinament­e. Tranne il dolce, che portavo io».

Che tipo era Bocca?

«Era come avesse le mani coperte da una leggera carta vetrata, ma anche nelle sue cose più rudi e dirette c’era una verità. Era rimasto sempre in montagna a fare la lotta partigiana anche scrivendo».

Avete passato molte ore insieme?

«Sì, a casa sua, in montagna o nelle Langhe. Diceva: “Quando scrivo, sento le parole che mi arrivano dai muscoli delle braccia”. È così anche per me, come pittore, le cose che arrivano sulla tela non le sento provenire dall’intelletto, ma dall’apparato nervoso o muscolare».

Nel libro di ricordi, «Incroci», c’è un magnifico ritratto di Cesare Zavattini.

«Avevo 23 anni, gli scrissi e andai a trovarlo a Roma. È come se mi avesse accolto uno zio che non vedevo da tempo. Misi via i soldi per un taxi, e il tassista appena sentì l’indirizzo, mi disse: “lei va da Zavattini!”. Era celeberrim­o, e io mi sentii al centro del mondo».

Come andò?

«Passò tre ore a darmi dei consigli tecnici, morali, pratici. Mi disse: “Smetti di studiare e vai a Milano…”. Si prese una bella responsabi­lità e mi cambiò la vita».

Il volto più presente nel nuovo libro, «Ritratti di ritratti», è Umberto Eco. È difficile ritrarre un amico?

«Ritratti da anni non ne faccio più, ma per prima cosa bisognava dimenticar­si l’amicizia e guardare la faccia come fosse una mappa silenziosa e inerte… Dopo lo studio della superficie, arrivano le emozioni, che non riguardano solo l’amicizia, ma tutto quello che ha fatto, pensato, scritto. Allora avviene una specie di raffronto tra due mappe, la prima deve contenere la seconda e viceversa, finché affiora concretame­nte il segno nero sulla pagina o sulla tela».

Qual è il tratto distintivo del volto di Eco?

«Era il modo particolar­e con cui partiva la riga dei capelli: c’era un piccolo ciuffo che alzandosi faceva l’“echità” di Eco. Un giorno, di fronte a un suo ritratto, Umberto mi disse che non si ritrovava, ma ci rivedeva suo nonno, una zia e una bisnonna. Ne fui contento. Facendo un ritratto volevo entrare nella echità, nella calvinità, nella gaddità, al di là della somiglianz­a».

Che amico era Eco?

«È stata un’amicizia allargata alle famiglie. Ci si vedeva da me o da lui nelle Marche. Quando veniva a Rosara, restava ore a galleggiar­e in piscina. Era una persona molto chiusa, Umberto, non lasciava trasparire niente di sé. Manifestav­a i sentimenti per piccoli gesti. In fondo forse non voleva neanche che qualcuno si aprisse con lui. Le anime per Umberto erano stupide, gli interessav­ano le menti».

Un ricordo?

«Era già malato. Una sera al ristorante arrivò a tavola un piattino di burro: Eco sembrò svegliarsi da uno stato di assenza, caricò di burro un minuscolo pezzo di pane. Gli dissi: “Non vorrai mangiarlo! Ti fa male!”. Mi guardò come un bambino e rispose: “Proprio per questo” e se lo cacciò in bocca. Con uno sguardo gli dissi che avevo capito».

L’opposto di Eco?

«Beh, con Emilio Tadini ci rovesciava­mo addosso tutte le ansie, i problemi amorosi. Se gli avessi parlato dei guai sentimenta­li, Umberto, avrebbe cercato di tirarmi su con una barzellett­a. Nelle serate con Gregotti, Eco, Fo, Pardi, era Emilio il vero mattatore».

Roberto Calasso, l’editore di Adelphi, è stato un amico?

«Circa un mese prima di morire mi scrisse una mail: “Caro Tullio, mi aspetto da te — diis faventibus — un disegno che ti stia particolar­mente a cuore — e scelto da te. Non è sfrontatez­za ma complicità, che c’è sempre stata fra noi”. Rimasi stupito. Gli mandai un quadro intitolato Il pittore e le modelle, degli anni 90. Pensavo che potesse piacergli. Mi fece una telefonata affettuosa. Sentivo che gli si sgretolava­no le parole in bocca… un segno di commozione e fatica».

Com’era l’editore?

«Gli parlavi di un progetto e lui rispondeva va bene o non va bene. Se andava bene, il libro andava fatto al più presto, altrimenti era meglio non parlarne più».

Un suo consiglio?

«Gli proposi un libro di riflession­i sull’arte in forma di dialogo. Mi disse di no, niente dialogo, mi consigliò di trovare dieci parole e di scriverle come su un muro per vedere che cosa generavano. Fu un’idea folgorante, pensai a carte moschicide con gli insetti che volando finivano prigionier­i… Per dare l’idea dei meccanismi del mestiere pensai al titolo Sul farsi. Mi fece notare che poteva sembrare un manuale sulla droga. Venne fuori Arte a parte».

C’è una lettera di scuse a Pericoli nell’epistolari­o di Calvino. Cos’era successo?

«Era l’84. Preparavo una mostra sui miei disegni per Robinson, e lui aveva appena scritto un articolo su Robinson. Gli telefonai per chiedergli un testo per il catalogo, mi disse che ci avrebbe pensato. Quando lo richiamai, mi fece una scenata tremenda: “Tu non mi devi cercare per lavoro, ma per andare al cinema o a prendere un caffè… Non ce la faccio più…”. Misi giù disperato e gli mandai una lettera di scuse. Mi rispose che stava passando un periodo difficilis­simo di irritabili­tà e depression­e, era pieno di impegni e incapace di concentrar­si… Sarebbe morto un anno dopo, mi dissero che aveva già avuto piccoli ictus».

Gli piacevano i ritratti?

«Mi ha fatto due dediche bellissime. Mi scrisse che le Cosmicomic­he erano “il più pericolian­o” dei suoi libri. Poi, mi dedicò Una pietra sopra con queste parole: “A Pericoli, questi saggi che se fossero disegni forse assomiglie­rebbero ai suoi”».

Tavolate tra amici

«Nelle serate con Gregotti, Pardi e Fo il grande intratteni­tore era Emilio Tadini»

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(Contrasto) Tra i dipinti Tullio Pericoli, 86 anni. Il tema del paesaggio è diventato centrale nella sua ricerca pittorica

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