Nel tratto di matita la mappa di un padre
«Il cataclisma… pare veramente stia per finire. E come superstiti dobbiamo prepararci a intonare il canto di grazie all’Eterno…». Comincia così la lettera datata «Lima 15 ottobre 1944» e indirizzata allo zio Alessandro Levi a Ginevra. Antonello Gerbi è all’altro capo del mondo, in Perù, dal 1938, quando il «banchiere illuminato» Raffaele Mattioli, patron della Comit, lo ha messo in salvo dalle leggi razziali trovandogli un impiego in una banca controllata in quel lembo di America meridionale. E prosegue: «Quando penso ai martiri, agli esuli, alle innumerevoli vittime e mi “vedo” qui nella mia biblioteca più numerosa che mai, alla fine di una domenica passata facendo una gita in macchina colla moglie, i ragazzi e la balia…, vien quasi voglia di vergognarsi». Un assaggio del sentimento che avrebbe popolato gli incubi dei sopravvissuti ai campi di sterminio.
Una «vittima dei nazi», i tre fratelli Gerbi (gli altri due esuli negli Stati Uniti) l’avevano già avuta con la morte del padre, ucciso da un collasso o da un ictus, nel sofferto esilio peruviano. Quando la disgrazia colpì la famiglia, seppellito il genitore, Antonello scrisse una lunga lettera ai fratelli con una minuzia di dettagli, indicando attimo per attimo i giorni della disgrazia, i minuti dell’agonia, gli spostamenti, i grammi di coramina somministrati, le espressioni di chi partecipò ai funerali, l’indagine su un’ipotetica conversione finale al cristianesimo, che rimandano, con un’esasperata ricerca del dettaglio anche insignificante, alla migliore letteratura yiddish. Ma non desta meraviglia per chi ha letto le sue opere, nelle quali la precisione e la verifica sono la cifra principale. Persino nelle schede realizzate per potersi orientare nella sua imponente libreria annota i danni causati ad alcune pagine da «bestioline» divoratrici di carta stampata.
Sandro Gerbi, il giornalista e storico che ci ha abituati ad andare oltre le apparenze quando racconta le vicende umane di uomini del Novecento come Indro Montanelli, Raffaele Mattioli, Guido Piovene, Eugenio Colorni, Lisa Sergio e molti altri, questa volta va sulle orme del padre, incrociando la propria vita con quella del genitore nel libro Il selvaggio dell’Orinoco (Ulrico Hoepli Editore). Il titolo nasce dalla definizione che zio Levi dà di Sandro bambino nelle sue lettere, anche se l’Orinoco scorre non proprio ai piedi di Lima, dove per una decina d’anni la famiglia vive con l’idea fissa: «Non perire in Perù».
Le parole del padre, estrapolate dalle lunghe lettere, trasformano un «memoriale» in una sorta di breve romanzo verità: per intenderci, un Lessico famigliare alla Natalia Ginzburg.
Dopo la morte del genitore, su richiesta di editori come Mattioli e Roberto Calasso, Sandro si trova a ricalcare le orme di Antonello per aggiornare opere come La disputa del nuovo mondo o Il peccato di Adamo ed Eva, ampliati dall’autore con lunghissime note scritte a mano. Un lavoro lungo ed estenuante, per non tradire l’impronta del padre, condotto in biblioteche statunitensi e britanniche. Alla Library del British Museum, rileggendo i ricordi del padre, Sandro rinviene il tavolo sul quale furono compulsati i volumi per Il peccato di Adamo ed Eva. A fianco c’era quello in cui Mario Praz, in quegli stessi giorni, sfogliava «libri proibiti» per La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Antonello si distrasse e ascoltò la richiesta dell’inserviente mentre consegnava allo studioso i libri sulla storia del sadismo: «Le occorre anche il volume delle illustrazioni?»; «Of course», rispose impassibile Praz; «Allora se si allontana non lasci il volume aperto sul tavolo». Pubblicato il volume Il peccato di Adamo ed Eva che dava conto di una «scandalosa» ipotesi seicentesca sulla cacciata dal Paradiso terrestre, quando Mattioli lesse il volume commentò: «Nessun dalla testa mi leva/ Che il pomo d’Adamo/ Fosse il c..o di Eva!».
Ma è alla Braidense di Milano che Sandro rinviene le tracce più nitide del padre: «A mano a mano che collezionavo le frasi citate, trovavo di fianco ai passi interessanti un segno verticale, tracciato quasi timidamente con un lapis dalla punta assai fine. Dopo quattro o cinque volte mi venne il sospetto che non si trattasse di una semplice coincidenza…». Andando al risguardo finale, ecco la prova. Come faceva abitualmente sui suoi libri, Antonello aveva annotato, con una Sheaffer’s dalle mine sottilissime, il numero della pagina dove aveva trovato il passo illuminante. «Non me ne indignai per l’atto vandalico: bastava un colpetto di gomma per cancellare tutto». Sandro, anzi, si commosse.