Il giornalismo s’interroga sul fronte caldo delle fake news
In Francia il festival di «Le Monde» discute di guerre e propaganda. Tra i partner il «Corriere»
COUTHURES-SUR-GARONNE Molto lontano da Parigi e dalle altre capitali europee, giornalisti e lettori dialogano insieme su temi di attualità e modi di raccontarli per tre giorni a Couthures, sulle rive della Garonna, a un’ora di treno da Bordeaux.
Couthures è un minuscolo villaggio di 300 abitanti della Nuova Aquitania dove il giornalista Philippe Chaffanjon, dirigente di Radio France, aveva una casa di famiglia. Dopo la morte, in suo onore è stato organizzato un «Festival International de Journalisme» (Fij) che a metà luglio accoglie migliaia di persone da tutta la Francia e che è arrivato alla sesta edizione. Organizzato dal gruppo «Le Monde», il Fij ha come media associati «El País», «The Guardian», «Le Temps» e da quest’anno il «Corriere della Sera».
Le critiche all’autoreferenzialità dei media sono frequenti anche in Francia, dove i giornalisti sono talvolta accusati di essere chiusi nella loro bolla parigina, separati dal resto del Paese. A Couthures per tre giorni almeno la bolla scoppia, facendo spazio a un evento a metà tra sagra paesana e festival delle idee. Pubblico e giornalisti si fondono nelle tavolate lungo il fiume tra magret de canard con prugne di Agen, bordeaux e salsicce. Da venerdì a ieri sette temi fondamentali: le frontiere e i migranti, la gastronomia e l’ossessione del buono, ambiente e denatalità, l’obiettività come possibile traguardo dei giornalisti, la transizione ecologica alla sfida delle diseguaglianze, l’iperconcentrazione dei media, l’informazione come arma di guerra.
In un incontro su media e conflitto in Ucraina, la giornalista Alla Lazareva, corrispondente a Parigi del settimanale «Ukrainski Tyzhden» (e della sua versione inglese «The Ukrainian Week») ha parlato della battaglia dell’informazione. «Anche nel trattare la guerra si vedono i caratteri diversi dei due Paesi. L’Ucraina è un Paese giovane, i ragazzi si sono scatenati sui social media per celebrare in modo scherzoso l’efficacia dei razzi Javelin o per deridere i russi e qualche volta sé stessi, soldati improvvisati. La Russia ha avuto e ha ancora una comunicazione ingessata e tetra, con quella spaventosa Z da regime totalitario quale è».
Lazareva ha raccontato anche come il suo giornale si è riorganizzato per affrontare la carenza dei giornalisti. Una redazione sguarnita non per l’estate e le ferie, come succede in tutti i giornali del mondo, ma perché «alcuni colleghi hanno scelto di andare a combattere arruolandosi nelle forze di difesa territoriale».
Dal pubblico una persona chiede quanto la disinformazione russa pesi nella guerra, e dalla discussione emerge che talvolta la propaganda agisce come un boomerang: «Se i russi hanno potuto pensare davvero di prendere Kiev e poi tutta l’Ucraina in tre giorni, è perché hanno finito per credere alle loro stesse bugie sull’inesistenza di un carattere nazionale ucraino. Putin è sorpreso dalla nostra resistenza, ma sarebbe bastato leggere i media o i social ucraini per sapere quale fosse il sentimento reale del Paese. È qualcosa che alcuni russi riescono a fare grazie al sistema della Vpn, connettendosi ai siti ucraini e occidentali. Ma sono una minoranza. La maggioranza dei russi crede alla propaganda del Cremlino, e accetta quella che di fatto è la riproposizione dell’eterno colonialismo russo, sovietico e post-sovietico».
Anche se in misura minore rispetto all’Italia, anche la Francia è toccata dalla propaganda russa, che trova nei media francesi voci pronte a rilanciarla. «È quel che succede nella rete CNews, che sembra puntare al pubblico orfano di Russia Today, il canale finanziato dal Cremlino che non ha più il diritto di trasmettere in Europa». In queste condizioni, chiede una ragazza, ha senso partecipare a certe trasmissioni? «Lo faccio per non lasciare campo libero alle menzogne. Quando vedo o sento il personale dell’ambasciata russa a Parigi dire bugie colossali, penso che sia necessario controbattere su ogni punto. Anche se dal punto di vista personale è poi molto difficile restare calmi».
In un altro incontro, su frontiere e migranti da Calais a Lampedusa, il giornalista algerino Hassane Ouali ha risposto al pubblico che chiedeva informazioni sul ruolo del Nord Africa come terra di passaggio: «L’Algeria non è più solo un luogo di transito dei migranti, ma produce a sua volta emigrazione. Dopo il periodo del terrorismo islamista, migliaia di algerini tornano a lasciare il Paese, che pure è ricco, perché non hanno alcuna prospettiva in patria».
Hassane Ouali era fino all’aprile scorso il direttore del giornale francofono «Liberté», fondato nel 1992 durante il «decennio nero» e la guerra civile. L’imprenditore Issad Rebrab, prima fortuna privata d’Algeria, ha deciso di chiudere una delle ultime voci libere del Paese nonostante il giornale non avesse problemi finanziari, accettando di sottomettersi alle pressioni del potere politico per non pregiudicare i suoi affari.