Libia, proteste e crisi politica Lo spettro di una nuova guerra civile
Ha motivi scatenanti relativamente nuovi e però anche radici antiche l’ondata di proteste e manifestazioni violente che da venerdì scuote la Libia, addirittura riproponendo lo spettro minaccioso della guerra civile diffusa. «Vogliamo elettricità, basta con i tagli, non ne possiamo più!», gridano le folle arrabbiate nelle piazze del Paese. A Tobruk due giorni fa hanno fatto irruzione nel parlamento e dato fuoco agli uffici. A Tripoli minacciano gli edifici pubblici assieme ai ministeri e la sede della Noc, la compagnia petrolifera nazionale. A Misurata, come a Bengasi e nei maggiori centri sulla costa, la gente ferma in coda ai benzinai vuoti esasperata dalle oltre 12 ore di blackout a oltre 40 gradi centigradi non teme più neppure la repressione muscolare delle milizie armate.
Ma la causa che ha fatto precipitare la protesta nasce dalla consapevolezza diffusa per cui in questo momento l’impasse della politica pare non avere vie d’uscita e dunque i disagi sono destinati a restare, senza soluzioni in vista. Tra i motivi principali restano il prevalere degli interessi tribali che frammentano la società libica, assieme all’incapacità dei premier dei due governi di Tripolitania e Cirenaica a trovare un accordo che garantisca la formazione di una coalizione unitaria e dunque la preparazione di nuove elezioni. Negli ultimi tempi nel Fezzan sta addirittura crescendo un movimento di protesta che vede alleati fanatici dell’Isis ed elementi dei vecchi circoli legati all’ex regime di Gheddafi. Il fallimento giovedì scorso dei colloqui di Ginevra mediati dall’Onu ha sottolineato l’impotenza della comunità internazionale e allo stesso tempo la mancanza di leader locali in grado di andare oltre gli interessi immediati di parte in nome del bene comune. Ad aggravare la situazione c’è adesso anche la volontà di Mosca di esacerbare la litigiosità interna per bloccare l’export di gas e petrolio verso l’Europa, che infatti stanno cadendo ai minimi storici del periodo della guerra del 2011. Tutti i pozzi della Cirenaica sono chiusi e quelli della Tripolitania appaiono a rischio.
Ieri il premier di Tripoli, Abdulhamid Dbaibah, è tornato a ribadire la necessità del voto il prima possibile. Ma persino il suo elettorato sa bene che si tratta di un paravento privo di qualsiasi concretezza. In realtà, le commissioni per la formulazione della legge elettorale sono bloccate ormai da anni. Non c’è intesa sulla eleggibilità di personaggi come lo stesso Dbaibah, oppure l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, e Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi ricercato per «crimini di guerra» dal Tribunale Internazionale dell’Aja.