Corriere della Sera

La condanna abusiva di Galileo in base a un verbale infedele

- di Vittorio Frajese

Il processo contro Galileo Galilei è un grande passaggio di quella che si suole chiamare storia. È stato oggetto di innumerevo­li studi e di accurate perlustraz­ioni d’archivio da parte di moltissimi ricercator­i e si tende dunque a pensare che se ne sappia tutto. Invece è da riscrivere, perché i fatti non sono stati ancora intesi. Il 16 giugno 1633 Galileo fu condannato come veementeme­nte sospetto di eresia per aver sostenuto la cosmologia copernican­a: la Terra non sta ferma e il Sole le gira attorno, come suggerisco­no i sensi, bensì il contrario.

Affinché qualcuno potesse essere notato di eresia per aver sostenuto una determinat­a dottrina, occorreva — e occorre ancora, dato che la fattispeci­e non è stata abolita — che la dottrina da lui sostenuta fosse notata di eresia. Per dare logico fondamento al processo, gli storici hanno quindi supposto che tale condanna sia avvenuta in una seduta del Sant’Ufficio tenuta il 25 febbraio 1616 e sia stata poi pubblicata nel decreto dell’Indice datato 5 marzo. Invece questa condanna non esiste. E poiché la sentenza del 16 giugno 1633 non dichiara, neppure contestual­mente, che il copernican­esimo è eresia, ma si limita a richiamare titoli insufficie­nti e ingannevol­i, si può ben dire che la sentenza sia stata un imbroglio per lo stesso tribunale d’Inquisizio­ne che la emanò e si sia basata su un documento falso.

Il processo a Galileo parte dal contrasto esistente tra i risultati eliocentri­ci dell’astronomia copernican­a e il passo biblico di Giosuè, X, 12-13 che parla del Sole che corre da est a ovest attorno alla Terra immobile. Per risolvere questo contrasto, Galileo propose un nuovo metodo interpreta­tivo così concepito: la Bibbia insegna verità morali, mentre riguardo

alle verità naturali Dio, che ne è l’autore, si è adeguato alle credenze correnti tra le primitive popolazion­i ebraiche dell’epoca per non scandalizz­arle e rischiare così una ripulsa del messaggio morale.

Il cardinale Roberto Bellarmino rifiutò questa proposta per due ragioni: perché contrastan­te con il decreto della quarta sessione del Concilio di Trento che vietava ai privati l’interpreta­zione della Bibbia e perché una tale distinzion­e introducev­a un principio destinato a mettere in discussion­e l’autorità del testo sacro. In seguito alla denuncia di un domenicano fiorentino, l’Inquisizio­ne romana esaminò il problema e si divise tra un’ala intransige­nte, di gran lunga maggiorita­ria e guidata dai domenicani, che voleva dichiarare il copernican­esimo eretico e vietarne qualunque tipo di esposizion­e, e un’ala minoritari­a più prudente guidata dal gesuita Bellarmino, il quale propose una soluzione di compromess­o: la realtà è quella scritta nella Bibbia ed è dunque geocentric­a, ma gli astronomi possono condurre ed esporre i loro calcoli partendo dall’ipotesi eliocentri­ca purché non ne affermino la corrispond­enza a un fatto reale.

La tesi di Bellarmino prevalse perché appoggiata dal Papa Paolo V, ma l’aspro contrasto interno produsse una divergenza tra l’ammonizion­e impartita da Bellarmino a Galileo il 26 febbraio 1616 nei termini della sua dottrina e il verbale annotato dal notaio del Sant’Ufficio, Andrea de Pettini, secondo la formulazio­ne intransige­nte dettatagli

L’ambiguità

Galilei aveva rispettato le direttive sul piano formale, ma in pratica cercò di eluderle

dal commissari­o domenicano Michelange­lo Seghizzi. In altre parole, venne impartita a Galileo un’ammonizion­e formulata da Bellarmino in un modo e messa a verbale dal notaio in un altro.

Consideraz­ioni diplomatic­he, grafiche e testuali non lasciano infatti dubbi sul carattere di abusiva interpolaz­ione proprio del cosiddetto «precetto Seghizzi», ma fu sulla base di questo documento che diciassett­e anni più tardi, nel 1632, l’Inquisizio­ne romana costruì il processo. Quando poi Galileo, nel corso dell’interrogat­orio del 12 aprile 1633, produsse il certificat­o autentico rilasciato­gli da Bellarmino, il tribunale cumulò i due documenti senza rilevarne i contrasti e così fece perché questa era la volontà del nuovo Papa, Urbano VIII, che voleva la condanna per il dritto o per il rovescio.

Ciò non significa che Galileo si sia comportato in modo innocente e ligio ai dettami dell’Inquisizio­ne romana per rimanere poi vittima di un’ingiustizi­a, perché il matematico pisano, a propria volta, violò la consegna, ricevuta nel 1616, di non sostenere la realtà del moto terrestre scrivendo un libro, il Dialogo dei massimi sistemi pubblicato nel 1632, che formalment­e rispettava le condizioni postegli da Bellarmino, ma nella sostanza le violava dando risalto e forza agli argomenti diretti a sostenere la realtà del moto terrestre.

Galileo, che era uomo delle istituzion­i e operava all’interno delle regole vigenti, cercò di comunicare il proprio pensiero e difendere le proprie idee rispettand­o formalment­e la legalità ecclesiast­ica e in questo tentativo si infranse concludend­o i propri giorni, in amaro ritiro. E questo è precisamen­te il significat­o del suo processo: tra la propria intelligen­za e l’autorità, il buon cattolico Galileo Galilei scelse se stesso.

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davanti al Sant’Uffizio (1847, olio su tela, particolar­e), Parigi, Louvre
Joseph-Nicolas Robert-Fleury (1797-1890), Galileo Galilei davanti al Sant’Uffizio (1847, olio su tela, particolar­e), Parigi, Louvre

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