Dante: tutti possiamo (e dobbiamo) leggerlo
Da martedì con il «Corriere» la serie dedicata all’Alighieri: 18 volumi (anche i saggi dei maggiori studiosi) in collaborazione con Salerno Editrice. Si parte dall’Inferno. E dalla premessa di Enrico Malato: esperti e non, riprendiamo in mano la sua opera
Jorge Luis Borges ha definito La Divina Commedia «il più bel libro della letteratura mondiale»; aggiungendo: «La Commedia è un libro che tutti dobbiamo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura possa offrirci». È uno dei tanti che hanno detto o scritto con entusiasmo di Dante e della sua opera. Altri, molti (e tra questi personaggi del calibro di Ernesto Giacomo Parodi, Erich Auerbach, Eugenio Montale, Gianfranco Contini), hanno parlato addirittura di «miracolo» dantesco, di «prodigio» della sua opera. Un maestro della ricerca storico-letteraria come Ernst Robert Curtius ha scritto: «La personalità di Dante sovrasta con la sua statura i secoli». Siamo ormai al Settimo Centenario della sua morte, che è un’occasione di riflessione e di sintesi. Il coro dei consensi, spesso in toni entusiastici (a lungo, tra Otto e Novecento, si è addirittura parlato di «culto di Dante»), è universale. È il momento di riprendere, tutti, in mano l’opera di Dante, di rileggerla (o magari anche, qualcuno, leggerla), meditarla, perché è ancora e sempre una fonte dissetante come nessun’altra.
Un contributo durevole al rinnovamento e al progresso degli studi danteschi è stato messo in atto fin dai primi Anni 90 del Novecento dal Centro Pio Rajna, che, in stretta sinergia con la Casa di Dante in Roma, ha delineato e avviato a realizzazione un fitto programma di attività mirato ai Centenari: il 750enario della nascita di Dante, caduto sei anni or sono (1265-2015), il 700enario della morte, che viene a cadere quest’anno (1321-2021). Tra le varie iniziative, soprattutto editoriali, spiccano la pubblicazione, tuttora in corso, della «Edizione Nazionale dei Commenti danteschi» e quella, pressoché compiuta, della «Nuova Edizione commentata delle opere di Dante (NECOD)», oltre a numerosi altri volumi di argomento dantesco. A tale patrimonio, che si propone — può dirsi senza enfasi e con legittimo orgoglio — come il prodotto più avanzato della filologia e critica dantesca tra il XX e il XXI secolo, ha ritenuto di attingere il «Corriere della Sera» per portare il proprio contributo alle celebrazioni del Settecentenario. Tale che, offrendo ai suoi lettori un ricco e variato strumento di avvicinamento all’opera dantesca, sia anche garanzia della qualità dell’offerta. Qualità nella presentazione dei testi, attentamente riveduti alla luce dei risultati più recenti della filologia dantesca italiana e internazionale (soprattutto, per questa, la Monarchia); con esiti talvolta di grande rilievo, particolarmente per La Divina Commedia: basti ricordare, a mero titolo d’esempio, le peccatrici che diventano pettatrici = «pettinatrici, cardatrici del lino», sulle sponde del ruscello simile al Bulicame di Viterbo (in Inf., XIV 80); il Monte Viso, tradizionalmente identificato nel Monviso, dove sono le fonti del Po, che diventa Monte Veso, nell’Appennino toquesto
sco-emiliano, da cui sgorga il fiume Montone che sfocia presso Forlì, citata nel testo (in Inf., XVI 95); le famigerate scalee/ che n’avea fatto iborni a scender pria (in Inf., XXVI 13-14), inteso come le scale che ci avevano resi «eburnei», pallidi come l’avorio, prima, nello scendere, rilette invece come le scalee/ che n’avean fatt’i borni a scender pria, nel senso di i borni, gli spuntoni di roccia, che prima, nello scendere, ci avevano offerto (quasi) una scalinata; e via dicendo, per centinaia di luoghi, migliaia con gli interventi minori. Qualità, si diceva, del commento e della documentazione accessoria, che nella redazione della serie «I Diamanti», preferita per ragioni di spazio e per la ovvia necessità di rendere la proposta agevolmente accessibile al più vasto pubblico, resta pur nello spazio contratto guida sicura, essenziale ma non cursoria, per il pieno intendimento del dettato poetico: il quale nei passi più complessi, per esempio del Paradiso, è supportato da una parafrasi pressoché integrale del testo, che ne renda sempre pienamente comprensibile il senso letterale e ben illustrato quello allegorico e dottrinale, trovando ulteriore possibilità di ripresa nel Dizionario della Divina Commedia che integra l’edizione: con la duplice funzione di spazio illustrativo di questioni che lo richiedano, di raccordo interno, per richiami e recuperi a distanza, ma insieme strumento di ricerca, quasi piccola «enciclopedia dantesca» che consenta un rapido orientamento anche per il lettore meno esperto.
La serie si apre con il poema (i primi 3 volumi: Inferno, Purgatorio, Paradiso), cui segue il ricordato Dizionario (vol. 4 e 5): cinque unità che dovrebbero restare sempre congiunte, nell’uso, perché reciprocamente correlate. Vengono poi La Vita nuova e le Rime (vol. 6), il Convivio (vol. 7), le Opere latine, in 2 volumi (8, De vulgari eloquentia, Monarchia; 9, Epistole, Ecloge, Questio de aqua et terra), con i quali è conclusa la serie delle opere di Dante. A punto si inserisce una selezione di volumi di diversi autori, italiani e stranieri (Alison Morgan, Rocco Montano, Manfred Hardt, Manlio Pastore Stocchi, Nicolò Maldina) —, ritenuti utili per un verso ad approfondire punti particolari della problematica dantesca di più generale interesse, per l’altro a fornire un saggio originale della moderna critica dell’opera di Dante. Chiudono la serie tre volumi di chi scrive, riscontro epilogativo dei cinque iniziali: Dante e Guido Cavalcanti, punto d’arrivo di un lungo percorso e prima provvisoria tappa della ricerca che ha portato a schiudere le «Nuove prospettive degli studi danteschi» trattate nel volume stesso; sette Letture dantesche di altrettanti cruciali canti de La Divina
Commedia, primi esperimenti di un nuovo «modo» di lettura e insieme sondaggi del «nuovo commento» del poema quale ora si propone; infine quel Dante «monografico» che è stato concepito come tentativo di messa a fuoco di un personaggio e un contesto storico la cui conoscenza è da ritenere premessa imprescindibile per un utile approccio all’opera dantesca. Nella presunzione che non si possa capire la poesia di Dante se non sullo sfondo di un itinerario biografico e intellettuale che la determina e la condiziona: al là del piacere in sé che possa dare la lettura del profilo non cursorio di un personaggio come il nostro poeta, che — vale la pena di ripetere il giudizio di Curtius — si presenta al mondo con una «personalità» che «sovrasta con la sua statura i secoli».
In questo «pacchetto» articolato e vario, calibrato con grande attenzione dai sagaci operatori del «Corriere della Sera» in relazione alla destinazione che ne è prevista, il lettore più esperto, come il meno esperto, si muoveranno con pari agilità anche se con prevedibile diverso atteggiamento. Ognuno, se sarà pervenuto
ad avere questi libri tra le mani, mosso dunque da un interesse di fondo ravvivato dalla ricorrenza centenaria, ritroverà forse le antiche emozioni di quando, nelle prime letture scolastiche, avrà iniziato a leggere (e i più anziani, come al bel tempo antico usava, mandare a memoria: to learn by heart, dicono gli inglesi) i versi iniziali e più popolari: «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita . . .». Oppure: «Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio bianco per antico pelo,/ gridando: “Guai a voi anime prave . . .”»: il demonio Caronte, che compare improvviso e atterrisce (con i lettori alla prima lettura) i dannati sulla sponda dell’Acheronte, nel canto III dell’Inferno. Oppure, nel canto V di Francesca, la confessione del cedimento all’amore: «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto, come amor lo strinse». Leggono insieme, lei e Paolo, il romanzo cavalleresco di Lancillotto del Lago, immedesimandosi entrambi nella vicenda amorosa del cavaliere e della regina Ginevra. Si guardano, impallidiscono; poi, «Quando leggemmo il disïato riso/ esser baciato da cotanto amante,/ questi, che mai da me non fia diviso,/ la bocca mi baciò tutto tremante . . .». Quanti altri luoghi? All’inizio del Purgatorio: «Dolce color d’orïental zaffiro,/ che s’accoglieva nel sereno aspetto/ del mezzo, puro infino al primo giro . . .». Oppure, nel canto VIII: «Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e intenerisce il core,/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio;/ e che lo novo peregrin d’amore/ punge, se ode la squilla di lontano/ che paia il giorno pianger che si more . . .». O ancora, nel Paradiso, la emozionante percezione di Dio, punto d’arrivo dello sforzo di conoscenza che è il fine esistenziale dell’uomo, già ricordato da Ulisse, nel XXVI dell’Inferno, ai suoi stanchi compagni profughi da Troia: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza». Riflettete sulla vostra natura di uomini, appartenenti alla specie «uomo», l’unico animale fornito di ragione, che lo distingue, aveva avvertito nel Convivio, dagli animali bruti. L’impegno per la conoscenza, la conquista della verità, è la forza interna che muove l’uomo e dà ragione al suo vivere, mirato alla conquista di quel «vero in che si queta ogne intelletto», quella verità assoluta che è
supremo appagamento dell’ansia dell’esistere: Dio stesso, che si esprime come «luce intellettüal piena d’amore,/ amor di vero ben, pien di letizia,/ letizia in che trascende ogne dolzore».
È il messaggio fondamentale che il poeta trasmette ai suoi lettori, intorno al quale da secoli si gira e trova ora una risolutiva definizione. La nuova lettura del poema ha portato alla luce venature profonde rimaste a lungo occultate, altre sollecitazioni, altre suggestioni prima sfuggite o fraintese che lo muovono e ne mettono in luce un respiro nuovo, più ampio e coinvolgente, plausibile ragione prima della sua popolarità intramontabile.
Semplificando al massimo, si potrà dire che La Divina Commedia, capolavoro riconosciuto della letteratura universale, si scopre nel disegno dell’autore concepita come non opera letteraria fine a sé stessa, ma costruzione complessa mirata a inviare un messaggio salvifico, di orientamento e di riscatto, all’umanità smarrita e travolta dalle turbolenze del mondo: il mondo, s’intende, del tempo di Dante, che però sotto questo aspetto in poco o nulla è cambiato (se non in peggio) dopo di lui, così che non è perduta la validità di quel messaggio. Scopo di Dante è ridare all’uomo consapevolezza di sé, animale fornito di ragione, raccomandando che questa sia a lui guida nella vita. Di qui una complessa elaborazione ideologica che assume a fondamento i principî basilari del credo cristiano: gli uomini nascono e sono liberi, uguali, fratelli. Sono quei principî che, è appena il caso di rilevarlo, ammessi alla libera circolazione con l’editto di Costantino dell’anno 313 dell’era volgare, dopo aver scosso le fondamenta delle società del mondo antico — e dell’Impero romano, che tentò invano di esorcizzarne gli esiti attraverso le persecuzioni dei cristiani —, approdarono un millennio più tardi alla cultura dell’Umanesimo; e, fatti propri dalla Rivoluzione francese nel motto: «Liberté, Égalité, Fraternité», sono diventati, nell’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, la base (almeno teorica) della convivenza civile nell’età moderna. Dante non poteva naturalmente immaginare questo seguito, ma sente di quei principî la forza immediata, perentoria, irriducibile, che tenta di illustrare e riaffermare nel poema. La libertà è un diritto inalienabile e incomprimibile dell’uomo, che trova un solo limite nei medesimi diritti degli altri uomini, con implicito divieto di atti comunque lesivi di questi. Tale limite, avverte, deve l’uomo ritrovare in sé stesso, nella costante vigile consapevolezza della propria umanità attraverso l’uso della ragione: «Uomini siate, e non pecore matte», dirà (Par., V 80) in un rinnovato estremo messaggio, dopo l’esortazione di Ulisse ai compagni. La Divina Commedia si configura in definitiva come una grande lezione di umanità e severa ammonizione per chi la tradisce. Che nella forma poetica grandiosa e nella strategia espositiva dell’exemplum — la dimostrazione data attraverso l’ «esempio» di ciò che accade a chi o non riesce ad adeguarsi a quei principî, o consapevolmente li rifiuta, oppure li fa propri e vi si adegua —, trova la sua forza, il suo indelebile fascino, la sua perenne attualità.