NOSTALGIE PUBBLICHE
Nell’ultimo anno o poco più il governo o le sue società controllate hanno impegnato a vario titolo oltre dodici miliardi di euro per interventi pubblici. Da Alitalia alla Diesel di Renzo Rosso, dal sistema di pagamenti Sia alle acciaierie di Taranto, passando dalla Popolare di Bari, fino alle Cartiere Burgo. Alla fine il conto sarà più alto perché per ora non include l’ingresso in Autostrade, né il progetto della rete unica a banda larga o l’ipotesi dei centri dati in cloud a partecipazione statale (impegni non ancora misurabili).
Né tiene conto dei trasferimenti diretti per ben oltre cento milioni alle società sportive pubbliche affidate ad ex stretti collaboratori di alcuni ministri, delle garanzie pubbliche già estese per quasi centocinquanta miliardi o degli interventi a venire di un fondo da altri 44 miliardi chiamato «Patrimonio destinato».
Il tratto comune di questo labirinto di interventi — alcuni necessari, altri no — è l’assenza della porta d’uscita. Non molte volte emerge un piano industriale chiaro; di rado si intravede la certezza che ci si doti di competenze adeguate e si tuteli l’indipendenza di tutte le persone di vertice delle aziende partecipate; quasi mai si afferma che la mano pubblica intende vendere e ritirarsi, una volta portato a termine un salvataggio. Su questi punti sarebbe utile l’opinione di Roberto Gualtieri, dato che è il garante dell’uso delle nostre tasse, ma in proposito il ministro dell’Economia non si è mai pronunciato con chiarezza.
Eppure indicare in lui l’unico responsabile sarebbe troppo semplice. Racconta l’amministratore delegato di una grande azienda privata che, in un recente tour fra i leader dei principali partiti, ha avuto una folgorazione. Ha capito che quelli — combattendosi, odiandosi — erano tutti d’accordo su un punto: più Stato nell’economia, più denaro dei contribuenti nei gangli del sistema produttivo, tanto poi le leve vengono mosse dai loro partiti. Qui veniamo al paradosso di questo scorcio di 2021: poiché l’Italia ha finalmente ottenuto in Europa quel che chiedeva da vent’anni, il governo rischia di cadere. È dall’avvio dell’euro che volevamo un eurobond e ora lo abbiamo nella forma di Next Generation Eu, il Recovery fund da 750 miliardi (di cui 209 solo per l’Italia). Non ha condizioni, se non che non diventi un’effimera iniezione di zuccheri o olio negli ingranaggi ma sia speso per costruire il futuro. Naturalmente su questa unica, ragionevole condizione ora il governo si sta dilaniando in una «verifica», perché non riusciamo a decidere chi gestirà i soldi, come spenderli e ancora meno quali ingranaggi del Paese vanno aggiornati per far sì che la spesa non sia vana. I politici sono d’accordo solo sull’unico punto di cui sopra: anche quel progetto rafforzerà la presa del settore pubblico sull’economia. Ha senso? Lasciamo da parte le dispute dottrinarie fra liberisti e statalisti. Forse la verifica di governo potrebbe dedicare un quarto d’ora a guardare la storia dei nostri nonni e genitori. A prima vista una forte dose di intervento pubblico potrebbe avere una sua logica. Dopo la guerra l’Italia venne la
I destinatari
Gli interventi hanno riguardato Alitalia e Diesel, il sistema di pagamenti Sia e le acciaierie di Taranto fino a PopBari e Burgo
sciata libera dagli americani di mantenere la presa dell’Iri sulla grande industria e le banche, fu creata l’Eni nel 1952 come società unica dell’energia e fu nazionalizzata l’elettricità nel 1962 creando l’Enel.
Quella non era un’Italia competitiva, sui criteri di oggi. Dopo la guerra in molte case ci si riscaldava con le braci e si conservava il cibo con il ghiaccio. Le fabbriche della Fiat andavano a carbone ed erano un insieme di tavoli artigianali lontani dalle catene di montaggio e dal modello decentrato sviluppato negli Stati Uniti dalla Ford o dall’esercito americano. Negli anni ’50 gli italiani in media avevano 4,8 anni di istruzione e a metà degli anni ’60 il Paese contava 27 mila fra ingegneri o addetti alla ricerca e sviluppo: la metà di Germania, Francia o Gran Bretagna. L’investimento in ricerca e sviluppo valeva la metà, un terzo o un quinto dei principali concorrenti, in proporzione alle dimensioni dell’economia. Eppure l’Italia correva di più.
Fra il ’50 e il ’73 il reddito per abitante salì da un terzo a due terzi di quello degli americani e la crescita fu in media del 5% l’anno, meglio di qualunque Paese d’Europa occidentale (al pari della sola Germania). Perché? Perché eravamo molto arretrati, dunque compravamo o copiavamo tecnologie già esistenti all’estero, che ci permisero di accelerare enormemente. In questo le grandi holding e le banche di Stato ereditate dal fascismo si rivelarono un meccanismo relativamente adeguato di allocazione del risparmio e di attivazione degli investimenti di base. Non dovevamo innovare, non dovevamo rischiare: dovevamo copiare. La Cina eravamo noi (almeno la Cina di inizio secolo, non l’attuale). Viene da qui la parte in buona fede della nostalgia di oggi e in effetti superficialmente le sfide sono simili. Come allora, il livello di istruzione e il peso della ricerca sono inferiori ai concorrenti. Come allora ci fu il Piano Marshall, oggi c’è il Recovery fund per risollevare un Paese in ginocchio. Come allora non avevamo il teflon, il nylon, le vernici industriali, le catene di montaggio o i trattori, oggi non abbiamo abbastanza banda larga, né 5G, non usiamo molto il cloud e l’intelligenza artificiale, il 20% della popolazione non accede al web e centinaia di migliaia di imprese non usano strumenti digitali.
Dunque vanno riproposte le ricette di settant’anni fa? No, perché la tecnologia di allora non aveva bisogno di apertura nella società, efficienza, istruzione ma portava automaticamente rapidi incrementi di produttività anche se l’italiano medio non raggiungeva la licenza elementare. Invece l’innovazione di oggi funziona solo se è continua, rapida e in ambienti che la incoraggino. La conoscenza esistente è utile solo se su di essa si innova ogni giorno, perché il web o la farmaceutica fanno evolvere i processi e i prodotti senza sosta.
Sarebbe bello se la verifica di governo riservasse un piccolo spazio a valutare che, per dare frutti, le innovazioni del nostro tempo hanno bisogno di istruzione e cultura elevate, amministrazione e giustizia efficienti, finanziatori disposti al rischio e capaci di comprendere l’innovazione, manager e imprenditori aperti al potenziale dei giovani e giovanissimi. Purtroppo invece di queste riforme pubbliche e private si vedono poche tracce nel confronto sul Recovery fund. E i politici sembrano non capire i limiti dello Stato nell’allocare risorse nella nostra epoca di grande incertezza sulle tecnologie che prevarranno domani. Se continuano così, è solo questione di tempo prima che l’autonomia dei manager pubblici venga subordinata all’avidità delle lobby e degli interessi di parte per distribuire prebende e puntellare aziende o settori senza futuro. Anche questa storia l’abbiamo già vissuta e ne paghiamo ancora il prezzo. Un piccolo, semplice rimedio sarebbe usare la verifica di governo perché non si ripeta. Sempre che non sia già tardi.
Le conseguenze
Se si continuerà così l’autonomia dei manager pubblici verrà subordinata all’avidità delle lobby