E alla fine non si salva nessuno Satta, il reazionario di genio
Novecento Bruno Pischedda in un saggio per Carocci sfida le contraddizioni del giurista autore de «Il giorno del giudizio», romanzo capolavoro Antidivorzista, fautore della pena di morte, mise una Sardegna feroce al centro di un’opera incompiuta e autobio
Conservatore in politica, se non a tutti gli effetti reazionario, favorevole alla pena di morte, cattolico eterodosso e apocalittico a suo modo. L’insigne giurista sardo e professore universitario Salvatore Satta ha tutto per risultare un indigesto censore d’altri tempi, eppure è un genio, nella sua disciplina (fu autore di un celebre Commentario al codice di procedura civile), ma soprattutto come narratore. Certamente Il giorno del giudizio, la cui stesura Satta avviò a Fregene il 25 luglio 1970 (cinque anni prima di spegnersi per un tumore cerebrale a 73 anni), è uno di quei romanzi che nessun canone della letteratura del Novecento dovrebbe ignorare, anche se raramente compare nelle antologie scolastiche. Romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1977 dalla padovana Cedam, ristampato due anni dopo dall’Adelphi di Roberto Calasso, che ha avuto il merito di crederci e di imporlo all’attenzione generale dei critici e del pubblico (200 mila copie vendute a oggi). Nell’87 il grande critico inglese George Steiner scrisse per il «New Yorker» una recensione in cui esprimeva l’incanto per la «marmorea ferocia» di quel romanzo, pensò a Tacito e Hobbes, ma poi non trovò di meglio che accostarlo al mistero di certe opere pittoriche di Chardin o all’«opaca luminosità» di La Tour.
Opaca luminosità è un ossimoro, figura retorica che si attaglia perfettamente all’opera come alla personalità dello scrittore sardo, fatta anch’essa di contrasti irrisolti. Ce lo spiega bene Bruno Pischedda nella sua monografia (Satta, il capolavoro infinito, Carocci), una lettura del romanzo che non trascura quel che sta intorno, accanto, sopra e sotto. Sopra e sotto e accanto ci sono altri libri, idee, lettere, editoriali, e ovviamente la vita con le sue fratture. Il giorno del giudizio nasce come un’indagine autobiografica (cautamente dissimulata) che vorrebbe narrare non solo la storia della famiglia benestante dell’autore tra fine Ottocento e Grande guerra, ma una città «che non ha motivo di esistere»: Nuoro, «nido di corvi», con il suo brulicare di notabili, «donne ricche e pallide che sognavano e intristivano nella clausura», pastori, banditi, preti, vagabondi, prostitute. E poi, allargando il cerchio, una Sardegna «di demoniaca tristezza», quella moderna e quella arcaica. Il tutto con i personaggi memorabili della famiglia, in primis il notaio don Sebastiano Sanna e la moglie donna Vincenza, afflitta da un’artrite paralizzante, intorno a cui ruotano figli, vicini, parenti, concittadini. Satta disegna una trama non lineare (e non raccontabile) nel segno di una lugubre aura di angoscia e di morte, tra memoria, diario, saggio filosofico-esistenziale, sentenziosità morali, in un giustapporsi di piani narrativi e discorsivi che spiazzano di continuo le attese.
Tutto ciò che il giurista aveva pubblicato in vita, al di fuori della produzione disciplinare, è un De profundis, sorta di resoconto riflessivo, uscito nel 1948, sulla guerra e sulla disfatta fascista o meglio, secondo Pischedda, un’«orazione ad andamento aneddotico e moraleggiante». E l’autografo di un altro romanzo, ambientato in un sanatorio dell’Italia settentrionale e intitolato La veranda, fu ritrovato casualmente del 1981. Pischedda indaga nei temi della narrazione del Giorno del giudizio, nelle origini e nelle fonti, dirette e indirette, da cui muove un romanzo solo apparentemente tradizionale. Un romanzo che non cede di fronte alla cupezza del dolore e della verità, oscillante tra asperità geologica e visionarietà metafisica, tra affettività e gelo, vitalismo e immobilismo, ferocia del male e compassione, coralità e solitudine, razionalità e follia. Una «retorica delle antinomie». Gli opposti entrano e agiscono verso quella che Pischedda indica come «rovinosa negazione». Sempre dentro quel tono di espressionismo sublime necessario per evocare i fantasmi che inseguono lo scrittore e lo «scongiurano di liberarli dalla loro vita». È su questa cifra, già rintracciabile nelle prove giovanili come nelle conferenze giuridiche (Il mistero del processo), che insiste Pischedda, cercando di coglierne le specificità.
La domanda posta dal libro è: che distanza c’è tra l’autore reale e il cosiddetto autore implicito che concepisce la sua opera letteraria? L’autore reale, oltre a scrivere saggi teorici, si impegnò nell’attualità storica con combattivi interventi da prima pagina, trovando ospitalità, tra il 1970 e il
1974, sul «Gazzettino»: sono proprio gli anni in cui matura il romanzo, che sarà manoscritto su due agende e riversato poi, con varianti, in una redazione dattiloscritta destinata a restare definitiva.
Ecco dunque l’opinionista «tribunalizio», antimoderno, misoneista, fedele assertore di un equilibrio fra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, fustigatore del protagonismo (già allora!) dei giudici e della giustizia politicizzata (i «pretorini d’assalto»), ostile alla desacralizzazione inclusiva della democrazia di massa e alla corsa verso il benessere; censore di ogni trasgressività (tanto più quando diventa protesta movimentista): difensore dell’«uomo serio» contro «l’uomo frivolo». Lo vediamo dalla parte di Calabresi e contro i partigiani di Pinelli; opposto a Camilla Cederna che gridò alla strage di Stato nella morte di Feltrinelli; indignato dalla solidarietà verso l’anarchico Valpreda, primo indiziato di piazza Fontana.
C’è poi la battaglia contro il divorzio, che nasce da una visione del matrimonio come «fondamento sacro» dello Stato. A questo riguardo, Pischedda ricorda un episodio poco noto: dalle sue posizioni di estrema intransigenza, Satta viene coinvolto da Cossiga «quale consulente di eccezionale competenza giuridica» nel ruolo di mediatore tra Dc e opposizioni di sinistra per giungere morbidamente (e segretamente) a una riforma evitando in extremis un referendum «che avrebbe dilacerato il tessuto politico». L’inflessibile Satta accettò la missione e quando l’accordo con i comunisti sembrò a un passo, «in un giorno drammatico» fu il Papa «liberale» (l’aggettivo è di Cossiga) Paolo VI a intervenire per smontare il compromesso e imporre infine la via del referendum: a quel punto il giurista riprese a indossare la sua divisa intransigente.
Il polemista non è però lo scrittore. La chiave più produttiva (e affascinante) per accedere nel laboratorio del Giorno del giudizio è la corrispondenza con l’amico Bernardo Albanese, giurista di Palermo: è lì che si documenta il tormento di fede a sfondo apocalittico e gnostico del narratore. «Oggi che Dio è incerto — scrive — scompare anche l’idea del castigo e noi restiamo in preda a noi stessi». Dalle lettere emerge il trauma (doppio) della morte, nel luglio 1969, del fratello Filippo, che lasciò in eredità la casa avita a un istituto religioso, cancellando così ogni legame fisico (e simbolico) della famiglia con la Sardegna: perduto tutto, «impedire ad un mondo di morire» è la missione della scrittura. Albanese è il primo lettore, sparring partner, testimone (muto?) del maceramento di un uomo determinato (e insieme timoroso) verso l’azzardo romanzesco: «E vivo nella paura di essere come i buoi, di cui si dice che abbiano gli occhi che ingrandiscono le cose che vedono. Forse tutto quel che faccio è una sciocchezza».
È interessante notare, con Pischedda, che il culmine delle difficoltà viene raggiunto allorché l’autore deve abbandonare la «fissità del ritratto» memoriale per affrontare l’architettura romanzesca, nel passaggio cioè dal romanzo dell’io al romanzo storico-sociale: «Ho riletto (...) e mi sono reso conto di quanto sia difficile fare la storia, se non addirittura impossibile». Come viene dimostrato nel capitolo sui debiti e sulle letture (Léon Bloy, Unamuno, Mauriac, e forse persino Joyce, gli italiani Savarese e Papini, oltre alla sarda Deledda e ai canti barbaricini del prozio Sebastiano), Satta è tutt’altro che un ingenuo: e pur volendo far passare la propria impresa come frutto di pura ispirazione («scrivo senza pensare»), sa che solo dal confronto, dalle esitazioni, dagli arresti, dagli strappi nascono i capolavori.