GRANDI MANAGER CHE SUPERANO I CONFINI DELLA PROPRIA AZIENDA
Personalità Cesare Romiti costituì un vero punto di riferimento per tutto il sistema economico e sociale italiano. Com’è avvenuto per il banchiere Bazoli e il cardinale Silvestrini nei rispettivi ruoli
Nei giorni scorsi la comunità di imprenditori, finanzieri e politici che si è ritrovata ad Aspen ha dedicato qualche ora al ricordo di Cesare Romiti, suo fondatore e ispiratore. È stata un’occasione speciale per riflettere con distacco e serietà su quel che Romiti ha rappresentato non solo per la sua azienda, ma per tutto il sistema economico e sociale italiano. Perché, se gli imprenditori e i manager sono bravi, non restano solo grandi capi azienda, ma sviluppano anche una loro capacità di interpretare e gestire i tempi (la storia collettiva) in cui loro e l’azienda si trovano a vivere.
Per questo è giusto che Romiti riposi in pace a Cetona, che sia salutato con onore dagli uomini Fiat, che gli venga riconosciuta la fedeltà al sistema dell’auto e alla sua dinastia di riferimento (tutti lo ricordano in piedi e rigido al funerale dell’Avvocato), che si prenda atto del suo smisurato orgoglio nazionale (ricordo il quotidiano sventolare del tricolore sulla casa di via Pinciana); ma ancor più giusto è che si rifletta sul suo ruolo «sistemico», su quel che le sue decisioni e i suoi comportamenti hanno significato nel complessivo sviluppo della nostra società.
Romiti ha espresso, come grande capoazienda, una continua partecipazione «istituzionale» allo sviluppo italiano, e se ne è sentito intimamente responsabile («a tutti costa assumere una grande responsabilità collettiva in condizioni di emergenza» disse Andreatta a Bazoli chiamandolo alla terribile gestione del crac del Banco Ambrosiano). Ben al di là degli interessi specifici della sua azienda, Romiti negli anni 70 e 80 si prese la responsabilità di fronteggiare l’attacco brigatista alla Fiat e ai suoi dirigenti, di andare oltre l’onda dei grandi scioperi e di non drammatizzare l’occupazione della fabbrica, financo la presenza di Berlinguer ai cancelli. Lo fece con intelligenza strategica, con coraggio personale, con furbizia (si aggirò in incognito di notte fra i manifestanti nell’utilitaria di un’amica per decodificarne le intenzioni), con sottile capacità di rimotivare chi credeva ancora nella Fiat (la marcia dei quarantamila). Ma non lo fece solo per riprendere il controllo dell’azienda e della sua dinamica organizzativa; lo fece anche perché credeva nel sistema torinese, nel settore auto, nel modello di sviluppo creato negli anni sull’auto, nel primato della vita ordinaria (delle imprese e dei cittadini), nella esigenza di una stretta connessione fra vicende economiche e vicende politiche (erano gli anni del nostro ingresso fra i primi sette Paesi più industrializzati e non potevamo entrarci da straccioni).
Fu quindi un grande protagonista della vita collettiva. Non per ambizione personale, visto che era già un grande come capoazienda, ma perché si sentiva un leader istituzionale, chiamato a ridare un senso di marcia alla complessiva dinamica socioeconomica del Paese. Fu consapevole della pericolosa delicatezza di questo essere un leader istituzionale e imparò a gestire i difficili confini su cui «doveva» giuocare: i confini con la politica, i confini con i poteri di governo (centrale e periferico), i confini con la potenza della finanza nazionale e internazionale, i confini con il mondo del dibattito economico, insomma i confini con «il potere», senza farsi catturare dalle sue particolaristiche dinamiche.
Altri tempi
Purtroppo oggi non ci sono personaggi capaci di gestire un ruolo sistemico e istituzionale
Solo chi sa gestire i propri rapporti di confine supera il recinto del capoazienda, magari un potente capoazienda; e lentamente e sottotraccia diventa un leader sistemico, con la dovuta patina istituzionale. Non ho fatto a caso il nome di Bazoli, perché anche in lui c’è stata la capacità di gestire i confini «esterni» di un potere, quello bancario, che invece spesso aspira alla onnipotenza, e mi piace anche ricordare un’analoga e forse dimenticata figura di leader istituzionale, il cardinale Achille Silvestrini, che negli stessi anni di Romiti e Bazoli si trovò a riportare la propria «azienda» (il Vaticano) nei propri naturali confini, dopo qualche indebito sconfinamento finanziario e politico.
I tempi sono cambiati rispetto ai duri anni 70, ma le emergenze sono altrettanto complesse e delicate, e purtroppo non ci sono oggi personaggi capaci di gestire un ruolo sistemico e istituzionale, oltre il proprio specifico e particolare. E invece, come dice spesso Stefano Cingolani, la presenza di leader sistemici e istituzionali complessi è cosa ricorrente nei grandi periodi di sviluppo: basta guardare per gli ultimi venti anni al ruolo dei grandi imprenditori digitali in America o dei più empirici oligarchi in Cina o in Russia.