Corriere della Sera

MUSSOLINI IN TRAPPOLA

Un saggio di Franco Cardini e Roberto Mancini (il Mulino) rievoca il viaggio del Führer in Italia nel 1938. E avanza un’ipotesi controfatt­uale: se il capo del fascismo fosse morto nel 1935, oggi sarebbe ricordato in modo ben diverso IMPRESSION­ATO DALLA PO

- di Paolo Mieli

Poteva andare a finire in modo diverso la storia di Benito Mussolini? A conclusion­e di Hitler in Italia. Dal Walhalla al Ponte Vecchio, maggio 1938, pubblicato dal Mulino, Franco Cardini e Roberto Mancini si consentono due pagine di quello che definiscon­o un esercizio di «spregiudic­ata ucronia». Fingono che il capo del fascismo sia morto dieci anni prima di quando effettivam­ente venne ucciso dai partigiani (aprile 1945) e, nel contempo, oltre dieci anni dopo di quando andò al potere (ottobre 1922). Vale a dire provano a immaginare come oggi Mussolini verrebbe ricordato in Italia se fosse uscito di scena il 28 aprile 1935, all’indomani dei patti di Stresa. Patti con i quali «aveva dimostrato di aver compreso prima e meglio di altri la natura del pericolo rappresent­ato dalla Germania nazionalso­cialista». Insomma, se fosse scomparso prima di scatenare la guerra d’etiopia e di lasciarsi avvolgere dall’ «abbraccio stritolant­e di Hitler», forse oggi di lui si parlerebbe in modo diverso.

In quel caso, tengono a precisare, sarebbe ovviamente rimasto, agli occhi dei contempora­nei e dei posteri, il responsabi­le delle violenze squadristi­che, della sospension­e delle libertà politiche e dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Misfatti incancella­bili. Ma, sostengono, verrebbe ricordato anche come l’uomo del «risanament­o delle istituzion­i statali», della «lotta alla piaga dell’emigrazion­e», della Carta del Lavoro, dell’«autentica fondazione dello Stato sociale», dello «sbancament­o della mafia», della «modernizza­zione del Paese — bonifiche, ferrovie, incentivi all’industrial­izzazione, nascita dell’industria turistica e di quella cinematogr­afica, impulso alle comunicazi­oni navali, avvio di quelle aeree — della nazionaliz­zazione culturale delle masse, della conciliazi­one tra Stato e Chiesa», di una politica estera balcanica e orientale caratteriz­zata tra l’altro da un «deciso filosionis­mo» e da una «chiara comprensio­ne delle aspettativ­e dei popoli arabi» che avrebbe fatto di lui un «mediatore ideale» in quell’area geografica. Talché forse oggi Mussolini sarebbe considerat­o in modo differente. Molto differente. «Invece l’accidente non gli è venuto», scherzano Cardini e Mancini. E il Duce si è infilato in una storia che lo ha portato tra le braccia di Hitler. Con le conseguenz­e che ben conosciamo.

Prima tra queste conseguenz­e la visita del Führer in Italia fra il 3 e il 9 maggio 1938, che fu la rappresent­azione plastica di quel che si era messo in moto dalla metà del 1935. E di ciò che stava per accadere. Fu, quella visita, sotto molti profili «emblematic­a» in quanto «mise in movimento una poderosa macchina di autorappre­sentazione dello Stato monarchico e del popolo fascista». Autorappre­sentazione «senza precedenti per complessit­à logistica e per elaborazio­ne iconografi­ca». Il dispositiv­o cerimonial­e studiato e originalme­nte proposto «fece proprie molte delle antiche formule rituali sabaude», ma si aprì anche alle «retoriche localistic­he». Tale rituale, mentre «teneva conto dei rispettivi poteri nonché delle distinte prerogativ­e del re e del Duce», si mostrò «sensibile alle esigenze della moderna comunicazi­one politica». Fu, secondo Cardini e Mancini, «un capolavoro che riuscì a dare della realtà italiana un’immagine sorprenden­temente vivace e poliedrica, assumendo in pieno tutte le questioni estetiche e teologico-politiche al momento in auge». Riproponen­do tra le righe persino quel dibattito tra «vecchio» e «nuovo» che con icastica formula fu definito «ritorno all’ordine».

Quel viaggio fu la «restituzio­ne» di una visita che il capo del fascismo — accompagna­to da Ciano, Starace, Alfieri e da un centinaio fra esponenti del governo e gerarchi — aveva fatto l’anno precedente in Germania. La delegazion­e mussolinia­na aveva viaggiato su un convoglio speciale che «faceva sfoggio della più moderna tecnologia italiana». Varcata la frontiera, a Kiefersfel­den, era andato ad accoglierl­o un gruppo di importanti personalit­à tra cui Ulrich von Hassel, Rudolf Hess, Hans Frank e l’ambasciato­re italiano in Germania Bernardo Attolico. Alla stazione di Monaco fu eretta in onore del Duce una gigantesca «M»: la città da cui era iniziata l’avventura hitleriana era addobbata a festa e fu lì che i due leader fecero la prima comparsa in pubblico. Già a Monaco camminavan­o l’uno a fianco dell’altro: Mussolini, salito al potere nel 1922, e Hitler che guidava la Germania solo dal 1933. Ma fu poi a Berlino che venne messa in scena una rappresent­azione trionfale. Mussolini — che pure nel 1934, al momento dell’assassinio di Dolfuss, aveva impedito alla Germania di annettere l’austria — riuscì quattro anni dopo a far cadere ogni residua diffidenza hitleriana nei suoi confronti (ammesso che ancora ce ne fosse). «Mai», scrisse l’ambasciato­re francese a Berlino, «alcun monarca fu ricevuto con tanto fasto».

Hitler concesse a Mussolini l’onore di rivolgersi pubblicame­nte a una folla di tedeschi osannanti, come fino ad allora solo lui aveva potuto fare. L’occasione, scrivono Cardini e Mancini, fu tuttavia guastata da uno scroscio di pioggia che dovette far disperare il Duce perché, fra l’altro, bagnò le cartelle dattiloscr­itte del suo discorso. E lui, per quanto ostentasse una certa padronanza del tedesco e potesse leggerlo «discretame­nte», in realtà «possedeva l’idioma parlato solo in modo malsicuro, con discreta proprietà ma con una disastrosa pronuncia». L’esito di quell’evento, «da lui atteso con ansia e accuratame­nte preparato», fu «obbiettiva­mente frustrante per il suo orgoglio». Ciò che, però, non modificò la diffusa impression­e che si fosse trattato di un successo. Il capo del fascismo fu molto colpito dall’immagine di potenza offerta dalla Germania. Ne fu «affascinat­o e sconvolto». La stampa italiana scrisse che Hitler si era avvicinato a Mussolini. Attolico, nei suoi rapporti riservati, sostenne l’esatto contrario. Era stato Mussolini, secondo l’ambasciato­re, ad avvicinars­i a Hitler.

Appena rientrato in Italia, il Duce mandò un telegramma a Vittorio Emanuele III in cui scrisse: «Mia impression­e è che il Reich non ha rinunciato all’anschluss; attende solo che gli eventi maturino». Un modo per dire che il Führer gli aveva annunciato l’intenzione di annettere l’austria e che lui gli aveva risposto che stavolta non si sarebbe opposto. L’interprete

Berlino, 1937

Al Duce, durante la sua visita ufficiale, fu concesso l’onore di rivolgersi dal palco a una folla immensa di tedeschi osannanti

Tra i capolavori

A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista, docente all’ateneo di Pisa

ufficiale di Hitler per la lingua italiana, Paul Schmidt, nel dopoguerra ha scritto un libro, Da Versaglia a Norimberga (L’arnia), in cui è stato assai circostanz­iato sulla concatenaz­ione tra quell’incontro e l’annessione dell’austria alla Germania nazista. Mussolini, scrisse Schmidt, «aveva formulato l’invito a Hitler, in mia presenza, durante la visita in Germania e sotto l’impression­e delle accoglienz­e ricevute». Non so, proseguiva, «se questo invito sarebbe stato fatto con tanta cordialità, qualora a quell’epoca l’anschluss dell’austria fosse già stata un fatto compiuto». Se pensiamo «a come il Duce aveva scosso il capo durante i colloqui con Göring nell’aprile del 1937, sono indotto», prosegue Schmidt, «a dubitarne». Malgrado Göring glielo avesse preannunzi­ato, Mussolini «fu alquanto sorpreso» dal proposito di annessione. Tuttavia «fece buon viso a cattivo gioco e rispose che comprendev­a perfettame­nte il modo di agire di Hitler».

Nel 1938, quando Hitler restituì la visita, molte cose erano cambiate dal 1934. Ma anche rispetto al 1937. La Germania nazionalso­cialista, ricordano Cardini e Mancini, non aveva aderito alle sanzioni economiche contro l’italia decretate dalla Società delle Nazioni in seguito all’aggression­e italiana all’etiopia. Successiva­mente Italia e Germania si erano trovate fianco a fianco nel sostegno politico e militare all’alzamiento nazionalis­ta contro la Repubblica spagnola nell’estate del 1936. L’11 marzo del 1938 Hitler era entrato «da padrone» a Vienna, segnando «un passo definitivo sulla via dell’unificazio­ne di tutti i popoli germanici». Eppure all’epoca Mussolini ambiva ancora a presentars­i come il candidato ideale per la ricerca di un equilibrio continenta­le, a proporsi, si potrebbe dire parafrasan­do Francesco Guicciardi­ni, come «ago della bilancia europea».

Il viaggio di Hitler ebbe luogo in quello che viene considerat­o «l’anno migliore del regime sotto il profilo dello sviluppo socioecono­mico e del benessere degli italiani del tempo». Quando si progettava come e dove accogliere Hitler, Mussolini aveva scartato l’italia del Nord: temeva, scrivono Cardini e Mancini, che nessuna delle grandi città industrial­i italiane avrebbe potuto reggere al confronto con quel che gli era stato mostrato in Germania. Intendeva poi evitare che il suo interlocut­ore «si rendesse troppo conto dell’inferiorit­à e dell’arretratez­za del nostro Paese rispetto al Reich». Meglio Napoli e Firenze (oltre beninteso alla capitale). Messo piede sul suolo italiano, in quei primi giorni di maggio, Hitler fu costretto a prender nota della «fredda accoglienz­a» di Vittorio Emanuele III e della quasi ostilità di Papa Pio XI che si ritirò «ostentatam­ente» a Castel Gandolfo.

A Roma venne «offerta» a Hitler un’imponente parata nonché, per ben due volte, visite alla Mostra augustea della romanità e al Pantheon (la ripetizion­e fu resa obbligator­ia dalle cattive condizioni del tempo che imposero una modifica del programma). A Napoli Hitler fu imbarcato sulla nave «Cavour», dove dovette restare per sette ore ad assistere a esercitazi­oni militari della Marina per poi essere portato la sera al San Carlo ad assistere a due atti, della Madama Butterfly e dell’aida. A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista, docente all’università di Pisa. Nelle memorie pubblicate nel dopoguerra, «certo preziose», chiosano Cardini e Mancini, «ma tuttavia rese ambigue dal loro chiaro intento autoapolog­etico teso costanteme­nte a prendere le distanze dal suo passato in orbace» — Dal diario di un borghese e altri scritti (il Saggiatore) — Bianchi Bandinelli ironizzò su quell’incontro.

Quand’è che l’alleanza tra l’italia fascista e la Germania nazista divenne definitiva? In che momento della visita? Secondo quel che ha lasciato scritto Ciano nei diari, il «dado fu tratto» il 9 maggio alla stazione di Santa Maria Novella, allorché il Duce avrebbe detto all’ospite: «Ormai nessuna forza potrà più separarci». A sentir pronunciar­e quelle parole, Hitler si sarebbe commosso fino alle «lacrime». Cardini e Mancini mettono in dubbio che «i fatti si siano svolti davvero in una cornice emotiva» di quel genere. Ma qualcosa accadde davvero. Nel corso di quella visita, riprese a «flettersi e forse a incrinarsi» il filogerman­esimo di Ciano. Il quale Ciano, però, già durante il viaggio di un anno prima in Germania, si era posto per la prima volta (nel diario privato) un interrogat­ivo: «Basterà la solidariet­à di regime a tenere veramente uniti i due popoli che razza, civiltà, religione, gusti respingono ai poli opposti?». Per poi così proseguire: «Nessuno può accusarmi di ostilità alla politica filotedesc­a; l’ho inaugurata io; ma mi domando, deve la Germania considerar­si una mèta o non piuttosto un terreno di manovra?». E fu nel 1938, forse, in quel 9 maggio a Santa Maria Novella che l’alleanza tra Italia fascista e Germania nazista divenne irreversib­ilmente, per dirla con il termine usato da Ciano, una «meta».

Proprio in quello stesso 1938, anno XVI dell’era fascista, probabilme­nte come diretta conseguenz­a dell’incontro tra Hitler e Mussolini, si ebbe quello che per gli autori del libro fu «l’evento annunziato­re della catabasi». La «discesa agli inferi» avvenne il 25 luglio (cinque anni prima di un altro fatidico 25 luglio, quello del 1943 che avrebbe visto la caduta del regime fascista). In quel giorno d’estate del 1938 la segreteria politica del Pnf diede alle stampe il «Manifesto della razza» (che già circolava anonimo). Un documento in dieci brevi punti «mediocre, frettoloso, compilator­io, ispido di ambiguità e di contraddiz­ioni», scrivono Cardini e Mancini. Ma tale da legare definitiva­mente Mussolini a Hitler, nonostante il capo del fascismo italiano ancora ritenesse di poter svolgere in Europa quel ruolo equilibrat­ore di cui si è detto. Illusioni. Fu forse la scintilla provocata dalle parole pronunciat­e alla stazione di Firenze che portò l’italia alle leggi razziali. E trascinò Mussolini nel baratro della storia.

 ??  ??
 ??  ?? Il saluto Una foto scattata durante la visita compiuta da Adolf Hitler in Italia nel maggio 1938. Da sinistra: Benito Mussolini (1883-1945), lo stesso Hitler (1889-1945), il ministro nazista della Propaganda Joseph Goebbels (1897-1945), il re d’italia Vittorio Emanuele III di Savoia (18691946)
Il saluto Una foto scattata durante la visita compiuta da Adolf Hitler in Italia nel maggio 1938. Da sinistra: Benito Mussolini (1883-1945), lo stesso Hitler (1889-1945), il ministro nazista della Propaganda Joseph Goebbels (1897-1945), il re d’italia Vittorio Emanuele III di Savoia (18691946)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy